Mi sono chiesta il perché dell’infestazione degli #unicorni e degli #arcobaleni nei gadget e nel vestiario (H&M ne è l’emblema: cuffie con scritto “unicorn’s fan club”, maglie che recitano “stay unicorn” , tute-pigiama da donna rosa con il bel corno argenteo che campeggia in fronte (due corna sarebbero state troppo ambigue), e così via.
L’unicorno: niente a che vedere con l’araldica medioevale, bionde dame raffaeliane e arazzi francesi, unicorno farnesiano del Ducato di Parma, simbolo di grazia e castità. Tutt’altro. L’unicorno é, nell’ attuale immaginario occidentale -assai privo di cultura, e rinnegante la storia – un ibrido che inneggia alla vaghezza della vita, al desiderio illimitato dell’inconoscibile e all’ambiguità sessuale, e culmina nella sfrenatezza di un’infanzia forzata, colorata e infinita.
L’arcobaleno: la pace del disequilibrio (priva del suo equilibrante opposto empedocleo), non l’eguaglianza, bensì la confusione, dei sessi, dei generi, delle specie.
Non solo una moda, quanto un’imposizione: del diabolicamente innocente, della distribuzione della perfezione degli opposti pitagorici e straussiani. E la gioventù accetta, mestamente sfrenata, alla ricerca della dissoluzione non già del corpo quanto dell’anima, e della propria identità. E la globalizzazione vince, imponendo nuovi totem.
Simboli pittorici, depauperati della tradizione, proposti come dissoluzione di essa.
Così lo “stay unicorn” arcobalenato diviene il messaggio cifrato dello “stay instable”.
CF