Rivoluzione d’ottobre- atrocità e leggende.

dossier Rivoluzione d’Ottobre

1917-2017

Gli artefici della Rivoluzione Russa si macchiarono di ignominiose atrocità, che la storiografia marxista, tuttavia, cela volutamente sotto il relativo successo che la Rivoluzione stessa ottenne, al prezzo, peraltro, di un ingente numero di vite umane.Raramente viene riportata l’orribile fine che toccò allo Zar e alla sua famiglia, fucilati ad opera dei bolscevichi a Ekarterinburg.

Per anni tuttavia il pubblico borghese volle credere, sognando, che qualcuno fosse sopravvissuto a quella strage. Coloro che si spacciarono per i Romanov furono duecentotrenta, un numero da record storico.

Ma l’effettiva fine della famiglia dello Zar, sterminata, perché l’armata bianca avanzava su Ekaterinenburg forse con l’intento di salvarli, a colpi di fucili e baionette, nella tragica notte tra il 16 e il 17 luglio 1918, fu una strage familiare.

L’inizio della fine

Il 14 aprile del 1917 il cinquantenne Zar Nicola Alessandrovitch Romanov aveva abdicato e, con la moglie Alice Alessandra Fedorovna Hesse Romanova e i loro cinque figli, era stato costretto a lasciare la reggia di Zaraskoie Selo. Dopo un lungo viaggio in parte in treno in parte in battello, sul Tobol, affluente dell’Ob, la regale famiglia ormai deposta giunse a Tobolsk, antica città della Russia asiatica, sperduta nella semideserta e gelida Siberia, remota meta d’esilio per molti infelici. Durante la dittatura di Kerensky, capo dei menscevichi, socialisti riformisti più moderati dei bolscevichi ma tuttavia, rispetto ad essi, in vistosa minoranza, la condizione dei prigionieri fu relativamente sopportabile, ma con l’avvento dei bolscevichi di Lenin peggiorò assai. Le forze comuniste sotto la guida del loro comandante, rientrato in Russia dopo lunghi anni di esilio, si erano infatti poste in stretto contatto con i numerosi Soviet, ovvero con i Consigli degli operai e dei soldati e, intensificata la loro azione politica, propugnando un programma di radicale cambiamento politico e sociale, avevano suscitato potenti scosse e tumulti in tutto il paese, sfociati poi in quella che verrà ricordata come la Rivoluzione d’Ottobre, culminata il 7 novembre (25 ottobre, secondo il calendario russo) e conclusasi con l’occupazione da parte delle guardie rosse di Pietrogrado e il rovesciamento, con un colpo di mano, del governo Kerenski. Nicola Lenin, ora al potere, provveduto alla spartizione e all’espropriazione delle terre, iniziò a vedere come troppo scomoda la presenza dello Zar ancora in vita. Nella primavera dell’anno seguente che, essendo stata Toblosk giudicata dai Leninisti troppo a rischio per un colpo di mano delle forze antisovietiche, i reali furono trasferiti in una nuova prigione e furono costretti ad intraprendere quello che, per la versione storica al riguardo più accreditata, sarebbe stato il loro ultimo viaggio. Come altra prigione fu pertanto scelta una cittadina mineraria aurifera al confine tra la Russia Europea e la Siberia, sede passata della zecca reale. Ekarterinburg.

L’ultima prigione
I bolscevichi requisirono l’abitazione di un contadino di nome Ipatief, dal quale l’edificio prese poi il nome che in seguito divenne storico, e l’adibirono a prigione per l’odiata famiglia deposta. Sorvegliati a vista dai lavoratori delle miniere locali e delle fabbriche, requisiti appositamente per quella loro sadica e nuova mansione, i familiari dello zar persero ogni minima forma di autonomia e di privacy; una cinquantina di altre guardie sorvegliava il caseggiato all’esterno, circondato inoltre da un nutrito numero di mitragliatrici puntate. Quella che fu l’ultima estate della loro vita, per i reali si trasformò ben presto in una cupa prigionia senza speranza alcuna. Circondata da un alto muro, le finestre oscurate, la modesta abitazione divenne ben presto una vera e propria prigione e i sette prigionieri furono relegati al primo piano, ove le sentinelle poterono dare libero sfogo al proprio odio, insultando i coniugi e offendendo volgarmente le principesse. Costretti a una forma di sostentamento razionata da una tessera annonaria, presto i prigionieri si videro costretti a coltivare l’orto, a vivere di modestissime razioni e a tagliarsi la legna, come l’ultimo dei contadini delle Russie.
L’eccidio.
A Ekarterinburg incominciò a vociferarsi che un esercito di Cecoslovacchi antibolscevichi comandati dall’ammiraglio Kolciak stesse marciando ivi diretto, forse con l’obiettivo di liberare la famiglia prigioniera. Fermata alla frontiera della Siberia Occidentale, la spedizione mise comunque in allarme il carceriere di Casa Ipatief, il comandante Jurovskij.

La morte del granduca Michele

Poiché il figlio dello Zar, il tredicenne zarevič Aleksej era gravemente affetto da emofilia (ovvero la non coagulazione del sangue in seguito anche alla minima ferita ed il conseguente rischio di morte per dissanguamento), successore più prossimo a Nicola II restava il di lui fratello, il granduca Michele, all’epoca gli arresti domiciliari a Perm. Pertanto, desiderosi di far estinguere la casata imperiale per evitare eventuali rivolte antirivoluzionarie, la notte del 12 giugno i bolscevichi rapirono il gran duca ed il suo segretario Nicholas Johnson per poi portarli in una remota foresta e ivi fucilarli. Successivamente ne buttarono i resti in una fornace di una fabbrica, per cancellarne ogni traccia.

L’eccidio dello Zar e della sua famiglia

Ugual sorte di Michele l’ebbero il fratello Nicola II e la sua famiglia. Probabilmente il principale fautore dell’esecuzione e del successivo occultamento dei corpi fu Jakov Michajlovič Jurovskij ma non è dato sapere se questi agì per personale iniziativa o per ordini segreti provenienti da Mosca. Certo è che, pur odiando personalmente lo zar, Jurovskij non avrebbe potuto agire se non con il consenso di Lenin. Pur consapevole della vicinanza delle truppe cecoslovacche e della conseguente impossibilità di un ulteriore trasferimento dei prigionieri facendo sì che essi rimanessero comunque tali e non fossero liberati dagli antibolscevichi, Jurovskij era anche al corrente dell’avversità che i poverissimi abitanti di Ekarterinburg avevano nei confronti dei nuovi padroni. Pertanto, dice la versione oggi più accreditata, fu decretato il massacro dell’intera famiglia dello Zar, destinato comunque ad essere avvolto, per sempre da un mistero senza fine. Così, la notte del 16 luglio, dopo aver preannunciato al corpo di guardia di non allarmarsi, qualora avessero sentito degli spari, salì al primo piano e, svegliati i reali reclusi, li invitò a scendere dicendo loro che si temeva un assalto da parte delle truppe cecoslovacche. I prigionieri, secondo le note riportate dallo stesso Jurovnskij e dal membro del di lui comando, Sterkotin, furono disposti come in posa per un’insolita fotografia di gruppo. Su tre sedie furono fatti sedere lo Zar, la zarina e lo zarevitch, mentre le granduchesse restarono in piedi. Si aggiungevano al gruppo il dottore dello zarevitch, rimasto vicino al ragazzino, una cameriera e due domestici. In breve Juronskij diede ordine ai suoi dodici uomini armati di entrare nella stanza, lesse impassibile la condanna a morte dei reali, secondo la quale, con il pretesto che i parenti dello zar continuavano ad opporsi alla Russia sovietica, il Comitato degli Urali aveva decretato la fucilazione dei sovrani deposti. Sketorin racconta che, terminato di leggere, Juronskij estrasse il revolver dalla tasca e fece fuoco sullo Zar, sulla zarina e sulla figlia Olga. Gli altri uomini estrassero le armi e spararono contro il gruppo. Raccontano i pochi testimoni, all’epoca non pienamente accreditati, che la stanza si trasformò in un mattatoio infernale. I soldati si rifiutarono di sparare sulle principesse e Juronskij dovette chiamare ex-soldati austroungarici che avevano aderito alla Rivoluzione, e affidare loro il ruolo di carnefici. Alcune donne, tra le granduchesse, non morirono sotto i colpi di fucile, poiché i proiettili rimbalzavano contro i loro durissimi corsetti. Più tardi, quando ormai la fiamma alimentata dalla benzina bruciava sui corpi dei condannati, i carnefici avrebbero scoperto che le ragazze tenevano cuciti, sotto ai loro corsetti, grossi diamanti, sui quali i proiettili erano rimbalzati, senza perciò penetrare nella carne. Juronskij diede perciò ordine di finirle infilzandole con le lame delle baionette, risultando anche quest’operazione di difficile riuscita (le giovani si riparavano disperatamente il capo e il ventre con le braccia), il sicario ordinò che venissero finite a colpi di calci di fucili sul cranio. Dopo venti minuti la strage ebbe fine e le undici vittime, agonizzanti, morivano distese a terra, immerse in un lago di sangue. Medvedev, assistente di Jurovskij, racconta che questi sparò a bruciapelo successivi colpi al piccolo Zarevitch, che respirava ancora, rantolante e che il fatto gli provocò forti conati di vomito. I corpi furono pertanto caricati su barelle e caricati su un autocarro ma, racconta Steroktin, una delle granduchesse lanciò un urlo e si coprì il volto. Constate che anche le altre giovinette erano ancora vive, il soldato Ermanov le finì tutte a colpi di baionette. Così i corpi furono trasportati al pozzo di una miniera abbandonata, cosparsi di acido solforico e incendiati, cosicché, qualora riesumati, non fossero mai più riconoscibili.

Chantal Fantuzzi

articolo parzialmente ripreso dall’articolo della medesima autrice pubblicato sulla rivista Storia Verità n.13 2014