Di fronte ai rimproveri, invero pesanti, mossigli da Lorenzo Quadri sul Mattino e dall’UDC Ticino, Lombardi prende la parola e fa valere le sue ragioni.

Ticinolive (che avrebbe votato NO) prende atto degli argomenti del Senatore e prega tutti i suoi lettori di considerare attentamente il testo.

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Puntuali e sincronizzati come orologi svizzeri, il collega Lorenzo Quadri e l’UDC Ticino mi chiedono di spiegare il mio voto in Commissione esteri per il contributo di coesione ad alcuni paesi dell’UE. Volentieri rispondo, a loro ma soprattutto ai cittadini interessati.

Come noto, nel 2006 il popolo svizzero ha accolto la prima “tranche” decennale di questo “contributo di coesione” destinato a ridurre le disparità economiche fra i vecchi membri dell’Unione europea ed i nuovi paesi dell’Europa centrale, usciti molto indeboliti da mezzo secolo di giogo comunista. L’eliminazione delle disparità economiche strutturali era (e rimane) un mezzo per far crescere più rapidamente questi mercati, a beneficio dei paesi più sviluppati che vi esportano i loro beni. La Svizzera, associata bilateralmente al mercato UE pur senza farne parte, beneficia a sua volta di questa crescita, ed ha deciso nel 2006 di destinare un contributo volontario ai paesi interessati.

Alla Norvegia, membro dello Spazio Economico, il contributo è stato fissato e imposto da Bruxelles, ed è il quadruplo pro capite di quello offerto volontariamente dalla Svizzera, mentre i paesi membri dell’UE contribuiscono pro capite almeno dieci volte di più (non parliamo dei tedeschi dell’Ovest che stanno ancora sovvenzionando massicciamente il recupero post-comunista di quelli dell’Est).

La prima tranche presupponeva una seconda di uguale portata, ed è quanto le Camere federali hanno deciso nel 2016 per il prossimo decennio, adeguando la relativa base legale. Curiosamente, Lega e UDC hanno sonnecchiato a quel momento, non impugnando il referendum contro la legge, che è dunque entrata in vigore a tutti gli effetti. Ora si tratta solo di eseguirla, cosa che il Governo ha proposto alle Camere con due distinti decreti: uno di poco superiore al miliardo su dieci anni per i medesimi paesi di Europa centrale; uno di duecento milioni a favore dei paesi mediterranei che sono confrontati ai costi importanti dei flussi di rifugiati o migranti in arrivo da Sud (e che noi siamo ben contenti di vedere gestiti lì piuttosto che da noi).

A favore di questi due decreti depone non solo l’impegno morale preso al momento della prima tranche e l’interesse economico del mercato europeo per la Svizzera (il contributo di cento milioni l’anno corrisponde all’uno per mille delle nostre esportazioni annue verso l’UE, e la seconda tranche decennale è l’ultima prevista), ma anche il fatto che i milioni non vengono versati nelle casse dell’Unione (come fanno tutti gli altri paesi) bensì destinati direttamente a singoli progetti e infrastrutture nei paesi beneficiari, progetti che vengono selezionati e monitorati dai nostri esperti. Per questo i due decreti contengono anche 57 milioni per l’accompagnamento svizzero dei progetti. Quanto alla chiave di riparto del secondo decennio è stata leggermente modificata, a scapito di paesi come la Polonia, che hanno già beneficiato maggiormente della crescita, e a favore degli altri.

Come indica il suo comunicato, la Commissione esteri degli Stati è entrata in materia per 10 a 2 sui due decreti, seguendo dunque a grande maggioranza il Consiglio federale. Dove le opinioni si sono divise, è sull’eventuale iscrizione nel testo di legge di una clausola che imponga al Governo di dare avvio ai programmi solo dopo un miglioramento sensibile delle nostre relazioni con l’UE e la rinuncia di quest’ultima a misure discriminatorie. La maggioranza non lo ritiene opportuno ma ne condivide l’obiettivo politico e lo dichiarerà al dibattito plenario.

L’iscrizione di un articolo di legge (peraltro di difficile interpretazione: a partire da quale momento si potrebbe ritenere che le relazioni sono “sensibilmente migliorate”?) è inopportuna perché i tre dossiers attualmente sul tavolo (contributo di coesione, equivalenza borsistica e accordo quadro) sono formalmente e giuridicamente del tutto indipendenti.

Ci siamo tutti giustamente indignati un anno fa quando la Commissione Juncker ha pretestuosamente limitato a un anno l‘equivalenza borsistica, esigendo la conclusione dell’accordo quadro per il suo ulteriore prolungamento. Questa misura ricattatoria costituisce una chiara discriminazione della Svizzera rispetto a tutte le altre borse extra-comunitarie, e se applicata provocherà il nostro ricorso all’Organizzazione mondiale del commercio, oltre alle contromisure preannunciate dal Consiglio federale lo scorso giugno.

Commettere ora da parte nostra lo stesso errore che rimproveriamo a Bruxelles, creando un legame formale ingiustificato fra il contributo di coesione e gli altri due dossier non rafforza la posizione della Svizzera, ma anzi la indebolisce e dà ragione proprio al vincolo pretestuoso inventato da Juncker per farci pressione. E purtroppo non è una leva atta a far pressione sulla Commissione, che se ne impipa tranquillamente delle ”noccioline” elvetiche destinate a progetti specifici in certi paesi d’Europa centrale e meridionale che al momento non godono proprio dei favori di Bruxelles…

Meglio dunque cercare di ricostruire un rapporto di fiducia chiaramente degradatosi negli ultimi sei anni per diverse cause, un po’ anche nostre. Se gli Stati accettano questo contributo volontario, sottolineando il legame politico fra i tre dossiers ma non creandone uno formale, l’UE dovrebbe poter sbloccare l’equivalenza borsistica senza perdere la faccia, anche qualora l’accordo quadro non fosse ancora sotto tetto.

Ovviamente, non ne abbiamo la certezza. Ma se la Commissione Juncker dovesse persistere nel suo atteggiamento ricattatorio non riconoscendo l’equivalenza borsistica oltre il 31 dicembre, abbiamo l’arma di riserva, ovvero il voto al Consiglio nazionale a marzo. E posso tranquillizzare Lorenzo Quadri e l’UDC: se le cose andassero storte, sarò il primo a richiedere che il Nazionale bocci o perlomeno sospenda fino a nuovo avviso questi due decreti. Se Bruxelles ci discriminasse aprendo le ostilità, non vi sarebbe più ragione di dare un contributo volontario che fra partner corretti si giustifica.

Con questa arma di riserva noi non dichiariamo guerra, ma ci atteniamo al motto degli antichi romani “si vis pacem, para bellum”. Al quale però un romano dei nostri tempi aggiungeva maliziosamente “si vis bellum, para culum”. E la guerra economica, dobbiamo esserne coscienti, farebbe male ad ambo le parti ma di fatto più a noi per un semplice dato matematico: la Svizzera esporta pro capite oltre 3500 franchi all’anno verso l’UE, l’Unione esporta verso la Svizzera poco più di duecento franchi l’anno pro capite. Non è colpa nostra, ma le ricadute in caso di degrado delle relazioni non sarebbero simmetriche.

Filippo Lombardi