Salvini vuole abolire il valore legale di laurea in Italia e lo ha ribadito il 12 novembre 2018, ieri, alla scuola politica del suo partito.

Il valore legale del titolo di studio è la certificazione che ogni laurea, conseguita in ciascuna delle università in tutta Italia, abbia lo stesso valore e lo stesso peso nei concorsi pubblici.

Com’è giusto che sia. La preparazione, infatti, dipende dallo studio, dalla passione e dalla fatica del singolo, e non dal luogo in cui questi si laurea. Studio, passione e fatica, non sono state, evidentemente, proprietà di Salvini (ha avuto in compenso molte altre proprietà, come la retorica, l’empatia col pubblico, la dialettica, la risposta pronta e finiamola qui che da constatazione non si trasformi in panegirico) che non si è mai laureato. Non gliene si faccia certo una colpa, (lungi da me colpevolizzare chi non ce l’ha fatta nello studio) ma converrebbe ricordare al suddetto, ad oggi ministro, che non ce l’avrebbe fatta nello studio neanche in un’altra Università. Occorreva lo studio, la fatica, la propensione innata, chiamalasi come si vuole. Non l’empatia nei confronti di un luogo o di un altro, spesso infantil ridicola scusante della volpe che non arriva all’uva.

Ho visto studenti valorosi provenire da diversi luoghi ed essere sia valorosissimi che pessimi, così come professori preparatissimi, in università note o meno. Pertanto le classifiche delle Università sono spesso un’inutile discriminazione che, con l’abolizione del valore legale di laurea, aumenterebbe.

L’abolizione non sarebbe solo concorrenza tra gli atenei, ma spesso un’ingiusta “vittoria mutilata” per uno studente laureato in un’università magari “non prima in classifica”.

Bocconi o Statale, o il singolo sa far bene, o fa male.