di Gionata Genazzi, candidato al Gran Consiglio per il Partito Comunista

Come ricordato dal direttore del DECS Manuele Bertoli in un recente dibattito su un quotidiano ticinese, nei prossimi anni verrà introdotto in Svizzera l’insegnamento obbligatorio dell’informatica nei licei. Questa modifica è formalizzata nella revisione del regolamento della Cdpe (Conferenza dei direttori della pubblica educazione), organo che riunisce i dipartimenti dell’educazione dei 26 cantoni, ed approvata dal Consiglio federale il 27 giugno 2018. Il termine ultimo per l’inserimento dell’informatica come disciplina obbligatoria in tutti i licei della Confederazione è fissato per l’anno scolastico 2022/2023. La modifica è da salutare tendenzialmente in modo positivo, ma due aspetti mi preme analizzare qui nel dettaglio: perché è necessario insegnare l’informatica e quale informatica dobbiamo insegnare? Queste due domande si legano in maniera indissolubile e vanno quindi trattate come un’unica questione.

A questo riguardo, bisogna assolutamente evitare, all’interno della nuova disciplina liceale, sia di cadere nell’insegnamento di ciò che sarebbe meglio chiamare “utilizzo del computer”, sia di indirizzare lo studio verso l’apprendimento di specifici processi aziendali. In altre parole, non dobbiamo insegnare ai nostri ragazzi ad utilizzare particolari tecnologie, come per esempio creare dei fogli Excel, navigare nel web, utilizzare programmi per la gestione della contabilità e per l’amministrazione aziendale, o implementare un progetto con un dato linguaggio di programmazione. Un insegnamento impostato in questa maniera fornirebbe competenze utili solo nel breve periodo e che sarebbero in pochi anni obsolete, dato che le tecnologie particolari mutano molto velocemente. Ma il punto più critico è un altro: tale tipo di studio non fornirebbe ai nostri ragazzi le conoscenze per comprendere il mondo in cui vivono ed in cui vivranno, bensì li renderebbe esclusivamente dei consumatori di un qualcosa fuori da ogni loro comprensione.

Dato il mondo sempre più digitalizzato, e nel quale concetti estremamente innovativi come l’“intelligenza artificiale” e la “robotica” si affermano con forza, fornire i futuri cittadini di queste conoscenze diventa necessario. Per fare degli esempi: chi di noi saprebbe spiegare quali passaggi deve compiere un’immagine per essere inviata dal nostro cellullare a quello di un altro utente dall’altra parte del globo? Chi di noi comprende in dettaglio il modo in cui viene garantita la sicurezza nel web e conosce gli enti (reali, non virtuali!) che la garantiscono? Dove finiscono fisicamente, ed in che forma, i nostri documenti privati nel momento in cui li trasferiamo ad un servizio cloud come Dropbox? Come può un computer imparare (!) a riconoscere la nostra faccia in mezzo a quelle di migliaia di altre persone? Come può un’auto guidare autonomamente? Credo purtroppo che solo una ristrettissima cerchia di persone sia oggi in grado anche solo di abbozzare una risposta a tali domande.

La questione è critica, perché stiamo parlando di tecnologie che pervadono le nostre vite in ogni momento. Tanto più critica, perché queste tecnologie possono essere usate anche per influenzare la popolazione riguardo a questioni politiche e sociali, si veda per esempio lo scandalo “Cambridge analytica”, e portano con sé problemi etici e morali, si vedano le questioni della privacy e dei dispositivi dotati di intelligenza artificiale.

Non deve essere un modo per mettere la scuola al servizio del mondo del lavoro. Si tratta di qualcosa di molto più importante: di creare una società dove ogni individuo sia dotato degli strumenti per comprendere queste tecnologie e partecipare all’orientamento del loro sviluppo ed al loro controllo. Il rischio è quello che, se mancassimo questo passo, il tutto potrebbe ritrovarsi nelle mani di un’élite ristretta, mentre la gran parte della popolazione sarebbe relegata ad un mero utilizzo incosciente, persuasa che la tecnologia sia una grande magia impossibile da governare. L’informatica a scuola non deve essere quindi concepita come un addestramento a favore di un utilizzo e di una produttività pressoché immediati, ma deve essere una vera e propria disciplina scientifico-culturale (e in questo senso sarebbe più corretto riferirsi ad essa con il termine “Computer science”) atta a comprendere il funzionamento delle tecnologie computazionali che giornalmente utilizziamo, e a renderci coscienti (come società) che esse sono sotto il nostro controllo; vogliamo dei cittadini capaci di orientare lo sviluppo della tecnologia e di controllarla, non dei semplici utilizzatori succubi ad essa!

Ma come si pone il nuovo programma liceale? Esso va nella direzione auspicata? Bisogna dire che, mentre alcuni obiettivi del programma sono interessanti, altri sono purtroppo invece poco condivisibili, come “essere capaci di mettere le proprie conoscenze informatiche in pratica nell’ambito di un progetto” e “valutare la pertinenza, l’efficacia e la sicurezza di soluzioni informatiche”. Questi ultimi sono infatti orientati in maniera troppo forte al mondo del lavoro e ad una specializzazione professionale che niente deve avere a che fare con la formazione liceale.