Una settimana fa, durante una visita in Polonia, ho esaudito il desiderio che avevo da anni: vedere Auschwitz e Birkenau.

Immagine Wiki commons. Bundesarchiv, Stanislaw Mucha

Premessa: bisogna stare attenti a non chiamarli “campi di concentramento polacchi” perché offende molto i locali che vogliono vengano definiti “….di concentramento tedeschi in Polonia”.

Ciò detto, non si può descrivere quello che si prova durante la visita fino al termine: i forni crematori. Impressionano le celle di Padre Kolbe, la baracca di Primo Levi, i muri dove venivano giustiziati dopo un processo farsa, gli oggetti dei poveracci destinati alla morte: superfluo dire, bastano gli occhi ed il cuore.

Molte persone hanno già visitato e meditato. Personalmente ho provato un forte dolore nel pensare fino a che punto l’atrocità umana possa spingersi, come ha magistralmente scritto Hannah Arendt “La banalità del male” o Primo Levi “Se questo è un uomo”, dandoci molto contenuto sul triste tema.

Mentre seguivo il gruppo di lingua italiana fra le baracche di Auschwitz mi chiedevo che cosa abbiamo imparato dalla tragedia della Shoah, dall’olocausto di tanti poveri innocenti. Ho pensato che non basta commemorarne il ricordo una volta all’anno o quelle semplici pietre d’inciampo (nelle strade) per assolvere il compito di ricordarci ed educarci.

Il pensiero mi è ritornato in mente anche ieri leggendo un lungo e dettagliato rapporto di un giornale inglese dal titolo: “Fear and oppression in Xinjiang”( Paura e oppressione nello Xinjiang) di Christian Shephard, corrispondente a Pechino. Con dovizia di particolari, Shephard, che ha studiato in loco nello Xinjiang, ci riassume il problema della “rieducazione di massa” degli Uiguri.

Sono ben 22 milioni gli Uiguri che vivono in una regione a nord-est della Cina, insediati da secoli in loco, i quali hanno “la colpa” di essere mussulmani di origine turca e di avere una loro cultura e lingua diverse da quella cinese. Pechino vuole invece “rieducarli” per farli diventare “Han”, cinesi, che parlino il mandarino rinunciando alla loro cultura ( ed anche alle religioni).

Immagine Wiki commons (Colegota)

Poiché questi Uiguri si rifiutano di rinunciare alla loro storia, difendendo la loro cultura con i denti, il rimedio “inevitabile” è il loro internamento nei “campi di rieducazione”. Si stima sia internato oltre un milione in “terapia” con lo scopo di riuscirne cinesi. In alcuni di questi campi, si osservano filo spinato e torri di controllo, il che significa che non ci entrano da volontari…. come invece si sostiene.

A proposito di rieducazione, ritorna alla mente quella dell’Imperatore Pu Yi nel memorabile film di Bernardo Bertolucci. Il lavaggio del cervello in modo perfido.

Nei campi, ovviamente, i genitori sono separati dai figli e se non cambiano cultura possono finire nelle prigioni. Per i dissidenti le pene possono comportare l’ergastolo e, se del caso, la pena capitale.

Questo “vocational training” è giustificato da Pechino perché essendo mussulmani ed essendoci stati episodi di terrorismo, bisogna prevenire, rieducando. L’australiano James Leibold, uno studioso della Cina, sostiene che “le evidenze suggeriscono che si tratti di genocidio culturale”; non difforme da ciò che è avvenuto in Tibet, in Cambogia, ecc.

Gli Uiguri sono di una etnia originariamente proveniente dalla Turchia, ma hanno vissuto nello Xinjang da 500 anni, passando attraverso traversie storiche e diventando nel ’49 , alla proclamazione della Repubblica Popolare Cinese, una provincia autonoma cinese.

La regione che è stata importante crocevia della “via della seta” è ricca di carbone, petrolio e cotone. Con l’arrivo nel 2013 di Xi Jinping, il leader assoluto cinese, le cose per loro sono peggiorate.

La discussione sulle autonomie è stata sostituita dalla sua visione di una Cina unificata mediante “l’assimilazione delle minoranze”, se necessario anche con la forza.

Dal 2009 è anche aumentata la pressione di molti intellettuali cinesi che richiedono un “reset” delle politiche verso le minoranze uigure e tibetane considerate un pericolo per la stabilità della Cina. A queste si è di recente aggiunta Hong Kong , il che rende inevitabile, a loro dire, una linea più dura.

Si pensa, fondamentalmente, che le politiche di altri paesi di promuove il multi-etnicismo, multiculturalismo, siano fallite e quindi sia preferibile l’integrazione al “meticciato”.

In conclusione, è preferibile uno “state of race” – una Nazione che ha una sola “razza” – piuttosto che riconoscere identità multiple- soluzione preferita di Amartya Sen – che diventano alla fine incontrollabili.

Nel leggere “state of race”, mi torna in mente un’ insegna che ho visto appunto ad Auschwitz, appartenente al Ministro della Giustizia del III Reich in Polonia nel 1944, Otto Thierack, che dice quanto segue: “dobbiamo liberare la nazione tedesca dai polacchi, dai russi, dagli ebrei e dai rom”.

Queste incredibili affermazioni del passato ci devono sempre far riflettere quando si toccano argomenti come “razza di stato, razza superiore, ariana o anche cinese”. E questo è proprio quello che preoccupa in merito al futuro degli Uiguri.Purtroppo di loro o dei Rohingya e di altre situazioni simili, si parla troppo poco, della Shoah una volta all’anno. Non va bene!

Dovremmo riconoscere che in questo mondo bislacco troppe energie sono dedicate alle comunicazioni banali di twitter, all’uso smodato di Facebook; troppo poco invece per aiutarci a ricordare e prevenire le tragedie di cui non dovremmo mai finire di vergognarci.

Alla fine, purtroppo, sembrerebbe difficile non dar ragione a chi sostiene che l’uomo non impara mai nulla…

Vittorio Volpi