di Friedrich Magnani

Tower Bridge – Immagine Pixabay

Londra, prossima Singapore sul Tamigi? Forse sì, ma non sarà facile. Il riferimento alla città Stato asiatica, è stato evocato non molti mesi fa, dall’europarlamentare Guy Verhostadt. In un suo tweet, riferito ai negoziati con il Regno Unito, in qualità di capo delegazione del parlamento UE, ha sostenuto che l’Unione Europea, non potrà mai accettare una Singapore del Mare del Nord e che il Regno Unito non potrà godere di tutti i vantaggi del Mercato Unico, senza allinearsi agli standards sociali ed eco-sanitari europei.

Un avvertimento non di poco conto, soprattutto, se proviene dal capo di una delle controparti negoziali. Insomma, una quasi dichiarazione di guerra. Ma cosa avrà fatto infuriare il noto euro-liberale belga, al punto di esplodere in un exploit di livore anti-britannico? La risposta è nell’intenzione del governo di Boris Johnson, di creare dieci porti franchi o free trade zones, tra porti marittimi ed aeroporti, che permettano alle merci extra-ue di non pagare oneri fiscali e doganali nel Regno Unito, ovviamente, se non rivolti al mercato interno. Questo vuol dire che l’Inghilterra potrebbe fungere da hub commerciale nelle relazioni euro-asiatiche, in concorrenza ai grandi porti del Nord, da Rotterdam ad Anversa (quest’ultimo belga, appunto).

Ecco perché l’allusione alla città Stato di Singapore, ex colonia britannica, che deve la sua fortuna a Sir Thomas Stamford Raffles, governatore generale delle Indie orientali olandesi (strappate ai Paesi bassi, verso i primi dell’Ottocento) e alla sua intuizione, di renderla, già a quei tempi, il porto franco più fiorente dell’Asia.

Ma il Regno Unito non è stato solo commercio e fasti imperiali. Oggi, è un importante industria finanziaria che impiega 2,2 milioni di persone, tra banche, società di brokeraggio, consulenza legale, fiscale e immobiliare. Londra, malgrado la brexit, è ancora la seconda piazza borsistica del mondo, dopo New York (e prima di Hong Kong e Singapore), e mantiene il podio di capitale del mercato dei cambi, oltre ad essere il secondo mercato di scambio del renmimbi (dopo la Cina). Un vantaggio, che permette alle aziende del Dragone, di essere quotate nella propria valuta, alle porte dell’Europa, e alla City, di accogliere un crescente flusso di investimenti cinesi.  Il tutto, a discapito della sua rivale Hong Kong, che vede con sempre più fastidio, l’ostacolo di Londra verso la sua ascesa.

Nell’ottobre scorso, la Hong Kong Exchanges and Clearing, la società che controlla la borsa di Hong Kong, ha infatti tentato un’offerta ostile di acquisizione, nei confronti del London Stock Exchange, per un importo di quaranta miliardi di dollari. Proposta respinta con ragionevole freddezza, da parte inglese.

Ma il futuro delle relazioni euro-britanniche, è minacciato da un altro capitolo, meno citato ma ben più significativo, la concorrenza fiscale. E qui, Belgio e Olanda, giocano un ruolo non indifferente.

Il Regno Unito è spesso accusato di fare dumping fiscale nei confronti dell’Europa, con la sua rete di paradisi offshore, le crown dependencies (Jersey, Guernesey e Isola di Man) e i Territori d’Oltremare (Cayman, Bermuda e Isole vergini britanniche). Londra, ha assunto il ruolo di capitale del riciclaggio di denaro. Secondo il National Crime Agency del Regno Unito, due terzi degli immobili ubicati attorno allo square mile della City, sono riconducibili a società e trust domiciliati in questi paradisi fiscali. E se sono gli stessi inglesi a dirlo, ci sarà da credergli (prima che lo dica Saviano).

Ma la notizia è già datata. Inoltre, se guardiamo a uno studio dell’Università di Berkeley, The missing profits of Nations, la City, le Dipendenze della Corona e i Territori d’Oltremare controllano solo il 23% del mercato globale dei servizi finanziari offshore. Inoltre, l’HMRC (Her Majesty’s Revenue and Customs), il dipartimento governativo inglese, responsabile per la riscossione delle imposte, ha già avviato, da qualche anno, dei controlli sulle transazioni immobiliari londinesi. E il Regno Unito ha dovuto recepire di recente, la quarta direttiva europea antiriciclaggio e si avvia verso il recepimento della quinta (l’ultima), entro dicembre 2020.

Essa impone, tra le altre cose, la pubblicazione dei registri dei beneficial  owners di trust e società di comodo. Insomma, questo sistema ha già le ore contate. Un recente articolo del Financial Times, ne decreta la fine entro non molti anni. Il numero dei trust, sempre secondo l’analisi del FT, è sceso del trenta per cento in quindici anni (da 220 a 150000) e potrebbe scendere inesorabilmente. Il gettito fiscale per il Regno Unito, proveniente di soli trust, ammontava nel 2019, a 630 milioni di sterline.

Ma tornando allo studio della Università di Berkeley, la tesi interessante è che l’evasione fiscale sottrae molti meno capitali dell’elusione fiscale applicata, per esempio, in Olanda, Irlanda, Belgio e Lussemburgo. L’evasione, si sa, fa sempre più notizia, soprattutto se si tratta di individui noti o personalità politiche. L’elusione invece, è meno nota, tollerata e molto più diffusa. La “rigorista” Olanda, con il suo regime fiscale agevolato per le società e per i profitti da proprietà intellettuale, sottrae ogni anno, 50 miliardi euro di base fiscale, ai propri partners europei. Per non parlare dell’Irlanda, che basa la propria economia sull’elusione delle big tech americane, che garantiscono all’erario irlandese, un gettito da dieci miliardi di euro l’anno.

E che dire delle 350 multinazionali domiciliate in Lussemburgo? E la nostra vicina Francia? Non è da meno. Il conferimento della Legion d’Onore, da parte del presidente francese Macron, al ceo di Blackrock, Larry Fink,  suona come un invito, negli scenari post brexit, al più grande gestore di fondi e strumenti finanziari al mondo (7000 miliardi dollari).

E’ vero, in questi ultimi anni, i riflettori si sono spostati dai Panama Papers alla web tax dei giganti tech, ma la strada è ancora in salita e in questo periodo di vacche magre per i bilanci statali di alcuni Paesi, gli introiti fiscali e gli impieghi, derivanti dalla presenza delle grandi società straniere, non sono irrilevanti (pensiamo all’Irlanda e ad alcuni paesi dell’Europa orientale).

L’importante però, è non nascondersi dietro un velo di ipocrisia. La guerra fiscale mondiale c’è e ci sarà per lungo tempo. La Svizzera è uscita indenne dalla fine del segreto bancario. Il suo know how ha prevalso sulla segretezza. Quindi Londra riuscirà a sopravvivere? Conoscendo gli inglesi e la loro storia, si, la finanza parlerà sempre inglese. Ma non sarà facile.