Come oggi, centocinquantadue anni fa, Roma veniva presa dalle Camicie Rosse

50 mila uomini dell’esercito Italiano vinsero contro neanche 14 mila soldati dell’Esercito Pontificio

A Sedan, fra il 31 agosto e il 2 settembre, la Francia era stata paurosamente sconfitta dalla Prussia, con conseguenza che, ora, la guarnigione francese di Napoleone III che proteggeva il Pontefice a Roma tardava ad avere rinforzi: il momento, per risolvere la “Questione Romana” (che si sarebbe risolta solo nel 1929 coi Patti Lateranensi) era propizio per gli Unitaristi.

Il Regio Esercito italiano puntò allora tre divisioni sulla Città Eterna, comandante dal generale Raffele Cadorna (curiosamente padre del futuro spietato comandante delle truppe Italiane sul Piave, che all’epoca aveva 20 anni, futuro padre, a sua volta, di Raffaele Cadorna – chiamato come il nonno – antifascista distintosi nel Corpo Volontari della Libertà), cui si aggiunsero altre due divisioni comandante dai Generali Diego Angioletti e Nino Bixio.

il generale italiano Raffaele Cadorna
il generale pontificio Kanzler

Fu quest’ultimo il primo ad entrare nello Stato Pontificio, scontrandosi coi soldati Papalini agli ordini di Kanzler, comandante dell’Esercito Pontificio. Tra il 12 e il 16 settembre, l’avanzata italiana contro i Papalini continuò, inesorabilmente, conquistando Civita Castellana e Civitavecchia, con pochi caduti da ambo le parti. L’avanzata italiana è inarrestabile.

Poi, all’alba del 20 settembre, l’artiglieria delle “camicie rosse” apre il fuoco contro le Mura Aureliane, in località Via Nomentana.

La resistenza opposta dall’esercito pontificio contava  complessivamente meno di 15.000 uomini, tra cui dragoni pontifici, volontari provenienti per lo più da Francia, Austria, Baviera, Paesi Bassi, Irlanda, Spagna, ma soprattutto Zuavi, al comando dal generale Kanzler, tra cui Gendarmi pontifici, agli ordini del generale Evangelisti; Squadriglieri di Provincia (anch’essi agli ordini di Evangelisti); Fanti di Linea, comandati dal colonnello Azzanesi; Cacciatori, comandati dal tenente colonnello Sparagna; Dragoni, agli ordini del colonnello Giovanni Lepri; Artiglieri, comandati dal colonnello Caimi; un centinaio di Genieri, agli ordini del colonnello Giorgio Lana e del maggiore Francesco Oberholtzer, direttore dei lavori di fortificazione e poco più di cinquecento “sedentari” o truppe di guarnigione.

L’esercito italiano, invece, contava 50 mila uomini. Il grosso dell’esercito (40 mila uomini su 50 mila) era costituito proprio dalle tre suddette divisioni: l’XI, guidata dal generale Enrico Cosenz; la XII, al comando del generale Gustavo Mazè de la Roche; la XIII, agli ordini del generale Emilio Ferrero.

Riunite a palazzo Wedekind, di fronte a Montecitorio, le autorità dello Stato Vaticano discutono sul da farsi. Tra le nove e le dieci, però, l’assedio è ormai concluso: l’unica cosa che possono fare i Papalini, è issare una bandiera bianca in segno di resa.

Le camicie rosse accettano la resa papalina, solo Bixio continua a bombardare la città per un’altra mezz’ora.

La Trasteverina colpita da una Bomba, di Gerolamo Induno, dipinta nel 1850, dimostra come la questione dell’Unità fu tutt’altro che limpida e conclusa, nonché strascinante, già da tempo, polemiche

Tra i curiosi e i giornalisti che assistono al bombardamento delle antiche mura, v’è anche lo scrittore Edmondo de Amicis, che riporterà una curiosità:

 «[…] La porta Pia era tutta sfracellata; la sola immagine della Madonna, che le sorge dietro, era rimasta intatta; le statue a destra e a sinistra non avevano più testa; il suolo intorno era sparso di mucchi di terra; di materasse fumanti, di berretti di Zuavi, d’armi, di travi, di sassi. Per la breccia vicina entravano rapidamente i nostri reggimenti. […]»

Castel Sant’Angelo, i Colli vaticani e il Gianicolo rimangono al Pontefice, come da accordi: la città, però, è ora italiana.

L’anno successivo la Capitale Italiana sarebbe stata spostata da Firenze a Roma, avverandosi così il sogno di Cavour, il quale non poté assistervi, essendo morto dieci anni prima. L’11 ottobre 1860 Camillo Benso conte di Cavour aveva pronunziato in Parlamento le seguenti parole: «La nostra stella, o signori, ve lo dichiaro apertamente, è di fare che la Città Eterna, sulla quale 25 secoli hanno accumulato ogni genere di gloria, diventi la splendida Capitale del Regno Italico.»

l’Unificazione d’Italia, principiata con l’epopea Garibaldina e, anzi, ancor prima, con le Guerre d’Indipendenza, si sarebbe compiuta soltanto al termine della Grande Guerra, con l’annessione della Venezia Giulia e del Trentino.

Festività nazionale fino al 1930, la Presa di Roma fu abolita come clausola in seguito alla firma dei Patti lateranensi.

La campagna di occupazione del Lazio era costata 49 morti e 141 feriti all’esercito italiano; e 20 morti e 49 feriti all’esercito pontificio. Nell’elenco, i caduti da ambedue i fronti, hanno tutti dai 18 ai trent’anni.

Oggetto di numerosi film, girati dal 1905 al 2013, commemorativi, epigoni oppure semplicemente storici, la Presa di Roma resta un fatto smerigliato di più sfaccettature: per i revisionisti è un fatto di sangue, compiuto dagli invasori italiani a danno dell’ultima monarchia (il Papato) esistente in Italia; per i risorgimentali e nostalgici è un fatto eroico, compiuto con onore e prodezza dai conquistatori italici che si riprendevano, dopo mille anni, la Città Eterna, da troppo tempo nelle mani dello Stato della Chiesa. Che la si voglia leggere con melanconia, revisionismo storico, o occhio lucido privo di commozione, la Presa di Roma fu un fatto ineluttabile, emblematico, forte: come quella palla di cannone che trapassò i vetri rinascimentali di Palazzo Colonna e ancor oggi è infitta nei gradini di marmo di una scalinata all’estinta aura pontificale che fino ad allora aveva gravato su Roma.