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Biden e la Cina. Mal di testa – di Vittorio Volpi

immagine Pixabay

Joe Biden prima ancora di insediarsi alla Casa Bianca ha già un mal di testa. Visto il fallimento della linea strategica del suo predecessore Donald Trump nei confronti del gigante Cina. Che fare?

Trump ha attaccato duramente l’avversario cinese imponendo tariffe, tentando di far saltare l’accordo TPP( che la Cina si è accaparrata): “America First”, riportiamo a casa le industrie americane che operano in Cina, ma in realtà, come vedremo, le cose sono andate diversamente.

Limitando la vendita di componenti, ad esempio, (semiconduttori) fondamentali alle fabbriche cinesi, Trump mirava a metterli in difficoltà e dare il via ad una politica di “decoupling”(disaccoppiamento): aggregare tutti i paesi amici escludendo la Cina ed aggregati. Con ciò avviando il mondo economico verso due strade diverse.

Una chiara distinzione fra “alleati” e “nemici”. Magari con standard industriali diversi che risulterebbe in una sconfitta per tutti.

I risultati però di queste strategie sono stati fallaci: se lo scopo di Trump era quello di costringere i cinesi a comprare di più ed esportare di meno verso gli Usa, il risultato per ora è una delusione.

Vediamo i fatti. In primis, nonostante il virus, l’economia cinese è ripartita alla grande. È tornata a crescere ed esportare in particolare verso gli Stati Uniti. A novembre le statistiche (fonte New York Times) segnalavano un surplus commerciale cinese con l’estero di 75 miliardi di dollari. Un più 21% rispetto ad un anno prima. “Ma sono i numeri riferenti agli Usa che lasciano a bocca aperta” scrive il Corriere della Sera. Le esportazioni cinesi verso il paese che voleva ridurre la dipendenza dalla Cina, sono cresciute del 46,1%: pari a circa 52 miliardi di dollari.

A ciò hanno certamente contribuito persino gli alberi di Natale in plastica: 2/3 di questi prodotti nel mondo provengono dalla Cina.

Il risultato è un fallimento dell’inasprimento delle misure americane da parte di Trump, peraltro sicuramente e pubblicamente sostenute da Biden, ma soprattutto per l’opinione pubblica americana presso la quale l’indice di gradimento della Cina è in forte declino.

A questo punto la preoccupazione di Biden è cosa fare. Sicuramente rispetto a Trump, non volterà la faccia di fronte alle violazioni dei diritti umani (per gli Uiguri nello Xinjiang o Hong Kong). Il nuovo presidente è inoltre intenzionato ad incalzare la Cina sui fronti della tutela della priorità intellettuale.

Con l’accordo commerciale RCEP (Partenariato Economico Globale Regionale) comprensivo di 15 paesi che include anche Giappone e Corea del Sud, sin qui “fedeli” alleati di Washington, la Cina ha segnato un punto a suo favore e messo in crisi la strategia americana di “contenimento” del gigante cinese: ormai diventato difficile se non impossibile.

Una voce importante negli Usa si stacca dal coro del “contenimento”: una voce potente. Quella di Henry Paulson. Non solo segretario del Tesoro durante la presidenza di George W. Bush, ma anche precedentemente guida della prestigiosa Goldman Sachs a Wall Street.

Paulson peraltro è un esperto di Cina e vanta una lunga conoscenza personale con il presidente Xi Jinping. Di recente ha pubblicato un articolo importante sul Wall Street Journal dove ha sostenuto che bisogna riprendere il dialogo con Pechino su basi nuove “fino a quando gli Stati Uniti e la Cina non stabiliranno dove possono cooperare e dove ci sarà competizione, scrive Paulson, ci sarà caos. Il che limita la crescita economica globale e minaccia la pace”.

È un intervento importante per Biden che visti gli insuccessi sia di Obama che di Trump nella strategia Cina, dovrà cambiare registro.

I dati, che se veri fanno capire più delle parole, dicono che l’economia cinese crescerà quest’anno del 2%.

Se per Biden è un mal di testa, anche per noi in Europa è un’emicrania: troppo importante è ormai la dimensione geopolitica della Cina per non avere una politica ed approccio definito e coordinato.

Vittorio Volpi

 

Relatore

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