Non possiamo dar torto a Quadri, le sue critiche sono fondate. L’accordo è debole e svantaggioso. Perché è stato firmato? Probabilmente i negoziatori elvetici si son sentiti dire: o questo o niente. E allora hanno ceduto. In tema hanno suscitato interesse (e sorpresa) le dichiarazioni del professor Marco Bernasconi, poco allineate al Pensiero Unico.
I “toni” dell’establishment non ci sono parsi così trionfalistici, come lamenta Quadri. E in ogni caso in politica con la propaganda si può dire qualsiasi cosa.
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Sono alquanto fuori posto, oltre che fastidiosi, i toni trionfalistici utilizzati in occasione della firma del “nuovo” accordo sulla fiscalità dei frontalieri.
Il Ticino non ha alcun motivo per ritenersi soddisfatto da un accordo del genere: più che un successo, si tratta di una fregatura che arriva dopo quasi 6 anni di melina della controparte italiana. La quale è peraltro assai poco sospetta di sottoscrivere accordi che non siano a proprio favore.
L’applicazione del nuovo regime fiscale solo ai nuovi frontalieri, a partire dal 2023, suona come una presa in giro. E’ evidente che, a queste condizioni, uno degli effetti auspicati con il cambiamento di sistema, ossia una maggiore pressione fiscale sui permessi G in funzione “antidumping”, viene a cadere.
Pure inaccettabile il perpetrarsi dei ristorni dei frontalieri fino al dicembre 2034. Poiché i ristorni attuali ammontano ormai a quasi 100 milioni di Fr all’anno (in continua crescita), 14 anni di ristorni equivalgono ad 1.4 miliardi di franchi, che partirebbero senza motivo per la vicina Repubblica.
Nel frattempo, ben lungi dal portare entrate supplementari nelle casse cantonali, il “nuovo” accordo – come ben rileva il prof. Marco Bernasconi sul CdT del 24 dicembre – otterrà l’effetto proprio contrario: l’aliquota di ristorno salirà dal 38,8% al 40%, ed in più verrà cancellata la legge cantonale che fissa al 100% il moltiplicatore comunale a carico dei frontalieri. Il moltiplicatore dovrà scendere all’80%, con conseguente perdita di gettito per l’erario pubblico.
La Convenzione del 1974 è priva d’oggetto ormai da svariati anni. Essa costituiva il prezzo da pagare al Belpaese affinché riconoscesse il segreto bancario elvetico. Sappiamo come si è conclusa quella vicenda.
La Convenzione venne sottoscritta nell’interesse nazionale. Il prezzo, però, l’ha pagato – e tuttora lo paga – praticamente solo il Ticino. Va pure ricordato che altri accordi firmati dopo l’entrata in vigore della libera circolazione delle persone, come quello con l’Austria, prevedono ristorni ben inferiori. Addirittura, il Lussemburgo – Stato membro dell’UE – per i frontalieri francesi e tedeschi attivi sul proprio territorio non versa alcun ristorno d’imposta.
La Confederazione avrebbe dunque dovuto disdire unilateralmente la Convenzione del 1974, come peraltro chiesto a più riprese della Lega dei Ticinesi. Se non l’ha voluto fare, è solo in nome dei presunti – davvero soltanto presunti – “buoni rapporti” con l’Italia.
Altro che cantare vittoria: con il nuovo accordo (ammesso che entrerà effettivamente in vigore, essendoci ancora in ballo le approvazioni parlamentari) il Ticino otterrà forse un contentino nel lontano futuro. Nell’immediato, per contro, il gettito fiscale diminuirà e non ci sarà alcun effetto antidumping.
Il nostro Cantone aveva tutto il diritto di attendersi dal nuovo regime un maggior introito fiscale equivalente, o comunque vicino, all’ammontare dei ristorni. L’accordo avrebbe dovuto prevedere la tassazione dei frontalieri in base alle aliquote italiane, ben superiori a quella dell’imposta alla fonte elvetica.
Al Ticino sarebbe andato l’equivalente dell’imposta alla fonte attualmente prelevata, comprensiva della parte che viene ristornata; la differenza l’avrebbe incassata l’Italia. Oggi come non mai, a causa anche della crisi economica generata dalla pandemia, è essenziale che i quasi 100 milioni all’anno di ristorni rimangano in Ticino, per le necessità cantonali.
Il nuovo accordo non risponde in modo adeguato né agli interessi, né alle legittime aspettative del Ticino, le quali ancora una volta risultano sacrificate sull’altare dei presunti “buon rapporti” tra Svizzera ed Italia. Tale andazzo va avanti da quasi mezzo secolo. E l’arrivo del ministro degli Esteri “ticinese” non l’ha cambiato di una virgola. Il fatto che oltreconfine il nuovo accordo sia stato accolto con giubilo conferma la capitolazione elvetica. Alle nostre latitudini, dunque, altro che esaltarsi per la firma! La Svizzera ha fatto il regalo di Natale all’Italia.
Senza dimenticare che la sottoscrizione del trattato pone, evidentemente, la pietra tombale sulla road map del 2015. Il Belpaese nei nostri riguardi è e rimane inadempiente su svariati fronti. Pensiamo all’accesso degli operatori finanziari elvetici al mercato italiano. Oppure al fatto che la Svizzera risulta ancora iscritta nella black list italiana malgrado il segreto fiscale per i cittadini stranieri sia stato smantellato ormai da anni, in modo frettoloso ed autolesionistico. Roma obietterà di aver “fatto i compiti” con la sottoscrizione dell’accordo fiscale e di non dovere, pertanto, più nulla alla Svizzera. Berna se lo farà andare bene. E a restare con il cerino in mano sarà, come di consueto, il Ticino. Il Consiglio di Stato, invece di rallegrarsi senza motivo, farebbe bene a bloccare finalmente i ristorni.
Lorenzo Quadri, consigliere nazionale, Lega dei Ticinesi