In una fredda alba agli albori del nuovo diciassettesimo secolo, un uomo fu arso vivo. Nove giorni prima, l’8 febbraio del 1600, era stato costretto ad inginocchiarsi al cospetto dei cardinali inquisitori e dei consultori Benedetto Mandina, Francesco Pietrasanta e Pietro Millini, per udire la sentenza che lo scacciava dal foro ecclesiastico per consegnarlo al braccio secolare.

Ritratto anonimo di Giordano Bruno

Udita la condanna, Giordano Bruno guardò i suoi carnefici con disprezzo e disse «Forse tremate più voi nel pronunciare contro di me questa sentenza che io nell’ascoltarla», secondo la testimonianza di Caspar Schoppe.

Ora, con la lingua in giova – ovvero serrata da una mordacchia affinché non potesse gridare, imprecare o parlare – Giordano Bruno veniva condotto in piazza Campo de’ Fiori, qui denudato, legato a un palo su di una catasta di fascine, troppo alta affinché potesse prima esser stordito dal fumo, e fosse, così, arso vivo.

Sempre Caspar Schopp, nella Lettera a Conrad Rittershausen firmata lo stesso giorno dell’esecuzione del filosofo, scrisse che «[Giordano] volse il viso pieno di disprezzo quando ormai morente, gli venne posta innanzi l’immagine di Cristo crocefisso. Così morì bruciato miseramente, credo per annunciare negli altri mondi che si è immaginato in che modo i Romani sono soliti trattare gli empi e i blasfemi.» e così concluse «Ecco qui, caro Rittershausen, il modo in cui procediamo contro gli uomini, o meglio contro i mostri di tal specie.»

Il processo a Giordano Bruno nel fregio della Statua dedicatagli nel 1889
Kaspar Schoppe

Ma chi era stato, in vita, colui le cui ceneri furono gettate nel Tevere, rispettato e ammirato dai contemporanei, perseguitato dal suo stesso secolo, ed osannato, infine, dall’anticlericalismo ottocentesco?

Giordano Bruno era nato a Nola il 1548, a 17 anni era entrato nel convento di S. Domenico a Napoli, dove il suo spirito libero e la sua straordinaria propensione alla cultura anche pagana, gli valsero il sospetto di eresia, e il consequenziale allontanamento dalla claustra: riparò a Roma nel 1576 e qui depose l’abito ecclesiastico, votandosi alla filosofia, all’alchimia, al sapere.  Peregrinando di città in città, la sua fama di mago, filosofo e sapiente crebbe, fu in Svizzera a Ginevra nel 1579 dove fu affascinato dal calvinismo, poi, in Francia, a Tolosa, a Parigi e qui pubblicò, nel 1582, il De umbris idearum e la commedia il Candelaio, poi passò la Manica e giunse in Inghilterra: per alcuni mesi tenne svariate lezioni a Oxford: piccolo, minuto, parlando un inglese dalla forte ascendenza napoletana, non fu accolto con benevolenza dai sapienti inglesi, ancora impreparati ad accogliere le innovazioni – scientifiche e filosofiche – che quel frate spretato proponeva.

Straordinario esponente del naturalismo rinascimentale, Bruno fondeva infatti le più diverse tradizioni filosofiche dal materialismo antico al copernicanesimo – accentando la rivoluzionaria teoria eliocentrica – si allargava anche al medioevo irlandese con lo scotismo, al mondo classico col neoplatonismo, al riscoperto ermetismo, alla mnemotecnica sino agli influssi ebraici e cabalistici ma senza disperdersi rimaneva saldo attorno al principio dell’infinito.  Un universo infinito, non più chiuso in sé stesso e per questo perfetto, ma dilatato ed ineffabile, consequenziale effetto di un Dio infinito, fatto di mondi altrettanto infiniti. Un mondo non unico, poiché Bruno ipotizzò l’esistenza di altri mondi, in altri pianeti, attorno ad altre stelle, in altri sistemi solari, che adorassero altri Dei.

Così a Londra pubblicò, con il finto luogo di Parigi e di Venezia, Cena de le ceneri, De la causa principio et uno, De l’infinito universo et mondi, Spaccio de la bestia trionfante (1584), De gli eroici furori (1585), le sue più celebri opere esponenti del suo pensiero.

Dopo un breve soggiorno a Parigi, passò, nell’agosto del 1586, in Germania, fu a Francoforte nei due anni successivi dove pubblicò i poemi latini De minimo, De monade, De immenso et innumerabilibus.

Era il 1591, la sua gloria era all’apice, la sua fama inarrivabile. Un nobile veneziano imparentato coi Dogi, G. Mocenigo, lo chiamò a Venezia affinché gli insegnasse i segreti della mnemotecnica.  Giordano accettò, e fu l’inizio della sua fine, fu la sua condanna. Mentre alcune fonti ipotizzano che Mocenigo si adirò con Bruno perché gli aveva sedotto la figlia, altri sostengono invece che il filosofo si rifiutasse di rivelare segreti alchemici al suo patrono, fatto sta che Mocenigo si vendicò e denunciò la presenza di Bruno, da tempo ricercato dalla Santa Sede, all’Inquisizione Romana. Tradito e venduto, Bruno fu denunziato come eretico dal suo ospite, e nel 1592 fu arrestato dall’Inquisizione e processato. Dapprima si disse disposto a fare ammenda, ma fu trasferito all’Inquisizione di Roma, dove, forse la terribile severità dei Gesuiti lo indusse a rifiutare di ritrattare.

Bruno restò nelle carceri dell’Inquisizione romana per oltre sette anni, forse fu torturato alla fine del marzo 1597, secondo la decisione della Congregazione. Bruno non rinnegò mai i fondamenti della sua filosofia, ribadì sempre l’infinità dell’universo e la molteplicità dei mondi nonché il moto della Terra. Pochi anni più tardi, il detentore della fama del nuovo secolo, Galileo Galilei, costretto ad abiurare avrebbe invece pronunciato “eppur si muove!”: le teorie già proprie di Bruno non sarebbero morte tra le fiamme.

Quando l’Inquisitore contestò a Bruno che nella Bibbia era scritto che la «Terra stat in aeternum» e il Sole nasce e tramonta, Bruno rispose che siamo noi a vedere il Sole «nascere e tramontare perché la Terra se gira circa il proprio centro»; ed “osò” sottoporre «l’autorità dei Santi Padri» ai naturalisti, dicendo che questi «sono meno de’ filosofi prattichi e meno attenti alle cose della natura».

Sempre sostenendo che la Terra fosse dotata di un’anima, che le stelle avessero natura angelica, e che l’anima fosse immortale in quanto non forma del corpo, Bruno fu esortato  il 12 gennaio 1599 ad abiurare otto proposizioni giudicate eretiche, tra cui la sua negazione della creazione divina, e l’infinità dell’universo.

Bruno si disse disposto ad abiurare a condizione che le proposizioni fossero riconosciute eretiche non da sempre, ma solo ex nunc: la Congregazione dei cardinali inquisitori, tra i quali il terribile Bellarmino, rifiutò.

Rischiò un’altra tortura il 9 settembre 1599, che fu però respinta da papa Clemente VIII; infine, il 16 settembre Bruno rifiutò definitivamente di abiurare, ed il 21 dicembre dichiarò di non aver nulla di cui doversi pentire.

Così, dopo esser stato condannato, bruciò in una gelida mattina di febbraio, in principio del nuovo secolo a Campo de’ Fiori.

Quell’infinità da lui tanto propugnata, divenne un simbolo, di sapere, di verità e di cultura, oppressa solo nel corpo e non nell’anima, dall’Inquisizione.