di Vittorio Volpi

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Circa un anno fa Pechino imponeva la sua legge sulla sicurezza nazionale ad Hong Kong in contravvenzione con i patti firmati nel ’97 con il Regno Unito per il ritorno di Hong Kong alla Cina.

I 66 articoli della nuova legge, di fatto, significavano la fine dell’accordo “un paese due sistemi”,  impegno fra i due paesi a mantenere in vita per 50 anni il modello della l’ex Colonia britannica con il suo sistema, sotto però il vessillo cinese.

Secondo il leader di allora Deng Xiaoping, durante le negoziazioni, avrebbe detto alla Premier Thatcher che per il 2047 la Cina sarebbe cambiata a tal punto (democratizzata) da consentire un’integrazione naturale senza problemi.

Quello era il futuro che Deng immaginava, ma le cose non sono andate così. Di fatto la legge imposta ad Hong Kong sulla sicurezza nazionale pone fine agli accordi. Da parte di Pechino è stata la via d’uscita ad una minaccia sempre più pressante dei movimenti, dimostrazioni di massa che si avviavano ad essere fuori controllo.

Le alternative possibili erano lasciar correre e sarebbe finita male, altra opzione fare entrare ad Hong Kong l’esercito e por fine alle dimostrazioni. Da Pechino hanno optato per una terza soluzione, fare quello che fanno i paesi autoritari, ovvero soffocare le proteste, ammutolire la voce all’opposizione e lasciar uscire dal paese chi non si sarebbe allineato. Dice il Corriere della Sera “Hong Kong sta perdendo la voce, la fine annunciata del giornale di opposizione Apple Daily è un bagaglio non solo simbolico”.

La mattina del 17 giugno l’unità di sicurezza di Hong Kong ha mobilitato 500 poliziotti che hanno occupato gli uffici della Next Digital – gruppo editoriale – arrestando due dirigenti e tre giornalisti. Dopo 5 ore di controlli hanno confiscato molto materiale, 38 computers carichi di informazioni giornalistiche e bloccato i conti bancari della società così da proibire il pagamento di affitti e stipendi. Con ciò, mandando tutti a casa. 

Il raid è giustificato dall’accusa di collusione con paesi stranieri e con elementi esterni per mettere in pericolo la sicurezza nazionale. Tali reati, facili da dimostrare quando non c’è opposizione politica, comportano pene molto pesanti con la legge di Pechino. La libertà di stampa è ora appesa ad un filo. Jimmy Lai, l’editore, è già in carcere da mesi, seguito da nuovi arresti di dirigenti ed alcuni ormai all’estero. Titola una pubblicazione dell’ISPI “addio libertà di stampa”!

I reati peraltro comporterebbero pene fino all’ergastolo e quindi il quotidiano sparirà. Le dichiarazioni del giornale sono dure, “la Hong Kong di oggi non ci è familiare e ci lascia senza parole… Ci sentiamo impotenti rispetto alla necessità di impedire al regime di esercitare il suo potere a suo piacimento”.

Sottolineano la speranza che “le tenebre non vinceranno la luce”, ma commenta Guido Santevecchi sul CdS “il governo di Hong Kong (con Pechino alle sue spalle) sta mostrando al mondo come si uccide un giornale”.

A comprova del radicale cambiamento di clima, sorprendente leggere il titolo in prima pagina del South China Morning Post, una volta quotidiano liberale in lingua inglese di Hong Kong “Apple Daily usato come strumento per danneggiare la sicurezza, dice il governo”. Nessuna critica all’assalto contro la palese e vergognosa violazione della libertà di stampa…

Naturalmente la voce del padrone, Global Times da Pechino chiosa che “bisogna eliminare la mela avvelenata, con Apple Daily è legittimo e necessario”.

La Hong Kong che conosciavamo è ormai nell’oblìo.