di Vittorio Volpi

È polemica in Giappone per Naomi Osaka, la forte tennista che in un giorno è passata dalle stelle alle stalle. Il dramma, certamente grave, sulla sindrome della campionessa. Numero 2 al mondo nel ranking mondiale è uscita al terzo turno del torneo olimpico e proprio sul suolo giapponese dopo essere stata sconfitta da una tennista ceca in due set, la Marketa Vondlousova che non è nemmeno nei primi venti al mondo.

Apriti cielo! Si è aperto il vaso di pandora, esondando ed esalando tutte le latenti cattiverie, come il represso razzismo anche per il ruolo di grande privilegio che il Comitato Olimpico giapponese (COG) le aveva assegnato, cioè quello di accendere la fiamma olimpica all’apertura dei giochi 2021 proprio di fronte all’Imperatore Naruhito.

Wikimedia commons (Peter Menzel) – https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0/deed.en

Non è stata messa in discussione  la sua sconfitta nel match, ma il ruolo che  lei ha rappresentato, scrive la giornalista Motoko Rich. In discussione è la selezione della Osaka come portatrice della torcia che ha acceso il fuoco olimpico nella cerimonia di apertura di venerdì 23 Luglio che ha dimostrato quanto gli organizzatori delle olimpiadi intendessero promuovere i progressi nipponici sul tema delle diversità culturali e quanto  i leaders giapponesi volessero, in altre parole,  proporre un Giappone moderno, aperto,  multiculturale, allineato con i concetti “black lives matter” nel rispetto di tutti i canoni che soprattutto i sostenitori del politically correct propongono anche altrove.

Subito dopo la sconfitta/dramma mi ha scritto il seguente messaggio un amico svizzero (molto equilibrato e soprattutto che ha vissuto in Giappone e lo adora) “che vergogna Naomi Osaka, accendere il fuoco. Rappresenta tutto il contrario dell’essere giapponese. Comunque moltissimi indignati in Giappone. Solo i  media ne fanno un successo imbarazzante”.

Il mio amico ha anticipato di poco i media giapponesi che dopo la sconfitta (quando ancora davano l’oro per certo) hanno espresso ciò che avevano tenuto represso, come riportato da Yahoo News “sebbene lei sostenga di essere giapponese, lo parla a malapena..” e 10’000 followers hanno commentato con un like condividendo le critiche.

Naomi è figlia di un americo-haitiano (di colore) e di madre giapponese e, dato il suo background, è stata usata per una subdola propaganda del Sol Levante. È diventata molto popolare e i media hanno seguito con entusiasmo i suoi successi sportivi. Tanto da diventare testimonial per griffes prestigiose come Citizen, Shisheido, Nissin Cup Noodles ricoprendola anche di soldi.

Perciò la giornalista Rich scrive che “in alcuni angoli della società le persone rimangono xenofobe e mantengono una stretta definizione su cosa significhi essere giapponese”. La medaglia d’oro McNeil dice “quando lei ha fallito l’oro, alcuni hanno rovesciato tutta la loro bassezza su di lei”.

Nell’articolo si tratta anche l’argomento “hafu”, ovvero, dei giapponesi misti che sono spesso visti come differenti e discriminati nella società. Dopo 30 anni di vita in Giappone testimonio che purtroppo è vero. Non vorrei mai essere nato “hafu” in Giappone.

Stimolato dal problema Naomi, mi è capitato in mano un sondaggio del giugno 1971. Un campione di 2000 studenti, indagine “AIU”. Alla prima domanda gli studenti rispondono che i giapponesi sono superiori ad indonesiani, messicani, cinesi, francesi ed anche agli americani. Leggermente inferiori soli ai tedeschi (ma di poco bontà loro).

Il 65.8%  ha risposto poi che le qualità migliori sono essere diligenti e comprensivi nei confronti degli altri. Il pensiero sarà cambiato dopo mezzo secolo? Sospetto che ancora parecchi si stiano chiedendo chi sia superiore e chi inferiore. La parità non è ancora ben digerita. Fra le pecche, un complesso verso gli stranieri. Non si fa fatica a costatarlo anche oggigiorno.

Spiace per la povera Naomi che uscirà tritata dalle critiche oltre che per la sconfitta, ma  duole di più costatare l’ipocrisia di questi dirigenti olimpici e l’inganno di volerci mostrare un mondo roseo e  buono, anche a costo di danni irreparabili per quei giovani atleti che cadono nella loro trappola del “politically correct”’