di Vittorio Volpi

Myanmar dittatura
La magia dei templi a Bagan, città sulle rive del grande fiume Irrawaddy, antica capitale – Immagine Pixabay

Piange il cuore leggere dei resoconti sul Myanmar che ci giungono da reportages giornalistici o agenzie di stampa. Ci raccontano fatti impressionanti di repressioni, omicidi (più di 1000 dal colpo di stato di febbraio), arresti, circa 9000.

Fra questi ultimi, secondo Tom Andrews inviato speciale delle Nazioni Unite, alcuni sarebbero stati torturati ed aggrediti sessualmente mentre altri si sarebbero infettati con il Covid-19 e morti in prigione.

L’azione dei militari ha anche obiettivi di repressione religiosa nei confronti delle organizzazioni cristiane. Solo il 6% della popolazione è cristiana in un mare di buddismo. Secondo Al Jazeera “i cristiani sono stati certamente il target, sia per l’etnicità che per la religione”. Da considerare per esempio che nella regione del Chin l’85% dei residenti (478 mila) è cristiano. Nella provincia del Kayak più di 100mila persone hanno lasciato le loro case. Fra loro molti cristiani.

Tra quelli che vivono vicino al confine con l’India, circa 10mila hanno passato il confine, anche se sono costretti a vivere una vita da disperati in baraccamenti. Chi li ospita dà ad una famiglia di sei, 3 galloni di acqua al giorno per bere e lavarsi. Nient’altro. Condizioni disperate, ma senza soluzioni alternative per il momento.

Improvvisamente, nei giorni scorsi, un colpo di scena. Il governo militare (tiranno), guidato dal Generale Min Aung Hliang ha annunciato un’amnistia per i prigionieri politici in occasione del festival Thadingyut. Sarebbero state liberate 5600 persone il lunedì sera, inclusi alcuni criminali. Molti famigliari però hanno atteso fuori dalle carceri invano perché molti dei prigionieri rilasciati  sono stati riarrestati. Fra i “liberati” anche il portavoce di Aung San Suu Kyi, l’eroina della democrazia. Aung peraltro agli arresti domiciliari è tuttora in attesa di processo. È incriminata inter alia di brogli elettorali e commercio clandestino di alcuni gadgets elettronici. Rischia anni di condanna e la fine della sua missione politica, considerando l’età, perlomeno per il rimanente della sua vita.

Ma perché questo atto di apparente magnanimità del governo militare nel momento in cui la repressione di protestanti e ribelli armati è tuttora in corso?

La risposta è semplice: Asean aveva chiesto che un suo delegato potesse incontrare la leader Aung San Suu Kyi. Richiesta alla quale i generali hanno risposto con un secco “niet”.Di conseguenza al Summit previsto a fine mese non sarà invitato il leader birmano Min Aung Hlaing. Reazione a catena quindi dopo l’annuncio dell’Asean (Associazione delle Nazioni del Sudest Asiatico), una specie larvata di mercato comune del Sud Est Asia. La motivazione da parte dell’Asean dice che il governo ha dimostrato insufficienti progressi nell’ottemperare ai 5 punti concordati lo scorso aprile.

Un grosso affronto per i militari e, diciamolo, finalmente un intervento serio contro una dittatura militare che ha perso le elezioni alla grande e che è ricorsa ad un colpo di Stato violento per mantenere il potere.La prima e veramente importante presa di posizione da parte dei paesi vicini.

Le critiche sostengono che l’amnistia è solo un atto di propaganda politica e non viene dal cuore. In realtà, si sostiene, i generali vogliono dalla comunità internazionale solo tre cose: soldi, armi e legittimazione.

Positivo quindi che la mossa dell’Asean ponga finalmente i militari sotto pressione per l’arresto di Aung San Suu Kyi, di tutti i suoi collaboratori e dall’azzeramento di tutti i progressi democratici degli ultimi 10 anni.

Il Myanmar continua a vivere nel caos, isolato internazionalmente e vicino più che mai al conflitto armato. Le minoranze etniche risultano essere sempre più attive contro il Tatmadaw (l’esercito, i militari).

Come scrive Paolo Salom (CdS) “la pace di cui parla Min Aung Hlaing non è mai stata così lontana”.