Uber opera in diverse nazioni ed è in concorrenza con i servizi taxi locali. Si caratterizza perché grazie alle applicazioni digitali mette direttamente in contatto il passeggero con l’auto più vicina. I suoi autisti non sarebbero dipendenti ma gestori autonomi, con conseguente risparmio sugli oneri sociali Tale aspetto ha dato origine a contestazioni giudiziarie con relativi divieti di operare in alcuni mercati.
Esiste dal 2009 e non ha mai dato utili sino a pochi mesi fa quando ha annunciato un modestissimo reddito di 8 milioni di dollari su quasi 5 miliardi di cifra d’affari.
Nonostante ciò vale in borsa 83 miliardi di dollari. Faccio fatica a giustificare una simile valutazione. L’attività non presenta tecniche inimitabili che sbarrano la via alla futura possibile concorrenza e non vedo neppure, come invece è il caso in altri rami dell’economia moderna, una unicità di sviluppo originata dal vantaggio della posizione di monopolio o di oligopolio. Non si potranno soffocare servizi locali di tassisti come pure di “delivery”.
“We Work” pensava di realizzare profitti eccezionali posizionandosi sul mercato del subaffitto con servizi di uffici, attività nota da decenni. Anche in questo caso non necessitano degli ingegneri della Nasa per la gestione e non si individuano possibilità di rendere singolare e inimitabile l’offerta. La volevano portare in borsa per un valore attorno ai 35 miliardi di dollari, ma ci si è accorti del bluff ed è approdata alla procedura fallimentare.
Recentemente quotata al Nasdaq la società Rivian. In pochi giorni il valore di mercato è arrivato attorno ai 150 miliardi di dollari. La società ha prodotto sinora 180 SUV e pick-up elettrici. Cifra modestissima che non giustifica certo una quotazione che supera quella della Volkswagen. La terza concorrente nell’ambito delle vetture elettriche, Lucid, ai suoi primi passi è già valutata 90 miliardi di dollari, superando la Ford.
La Tesla è sicuramente un successo in questo ambito, ha prodotto in totale un milione di auto elettriche ed è arrivata ad una capitalizzazione di borsa di 1.000 (!) miliardi di dollari. Una valutazione stratosferica.
La posizione di mercato odierna verrà insidiata nei prossimi anni. Toyota prevede di investire nel settore 35 miliardi di dollari, la Volkswagen 52 miliardi di euro, la Nissan 18 miliardi di dollari.
Con l’arrivo sul mercato di questi e altri concorrenti con milioni di clienti fidelizzati, logistica e reti di vendita sviluppate capillarmente, la Tesla ne risentirà pesantemente.
“Unicorn” vengono chiamate le società imprenditoriali non quotate che si (auto)valutano al di sopra del miliardo di dollari. Una galassia per iniziati che legittima, anche per qualche incidente di percorso, perplessità sulle iper valorizzazioni
Le società operanti nel campo della “private equity”, vale a dire negli investimenti non quotati, dispongono di liquidità da investire nell’ordine di qualche migliaia di miliardi di dollari. Questa disponibilità rende molto concorrenziato il mercato e contribuisce all’aumento del costo delle società acquisite ed anche dei rischi. Tra i maggiori investitori nel settore il vastissimo sistema pensionistico mondiale costretto ad accettare investimenti non liquidi perché non quotati e tempi diluiti per porre rimedio alla grave crisi dei rendimenti originata dalla devastante politica a tasso “0” delle Banche Centrali e con conseguente difficoltà a coprire le esigenze necessarie per far fronte agli obblighi verso i pensionati. Perplessità suscita il fatto che questi operatori di investimenti nella “private equity” abbiano venduto 42 miliardi di dollari di società da loro gestite a dei fondi da loro amministrati, ciò che ha dato origine (dice il Financial Times) al pagamento di importanti bonus ai dirigenti per il successo delle transazioni (in famiglia).
Per salvare le finanze e le politiche di Stati sovraindebitati, Fed, BCE, BoJ e altre banche centrali hanno immesso 30.000 miliardi di dollari sul mercato che oltre che alle casse statali non sono affluiti agli investimenti produttivi, ma sono andati prevalentemente a gonfiare (inflazionare) i valori di borsa, delle transazioni finanziarie e degli immobili.
Il tutto con l’ausilio interessato di intermediari finanziari (banche d’investimento in modo particolare) che grazie a questi gonfiamenti di cifre e valori realizzano commissioni nell’ordine di miliardi.
Una prova del gonfiamento la si deduce dal deludente risultato delle recenti quotazioni in borsa di nuove società. La metà delle IPO (initial public offering) di società con un valore superiore al miliardo di dollari alle borse di New York, Londra e Hong Kong, sono oggi valutati a prezzi inferiori alla quotazione iniziale, con scarti del 20-30%. Mi pare difficile dare altra spiegazione.
Nel contempo negli ultimi cinque anni abbiamo accumulato a livello mondiale 80.000 miliardi di dollari di nuovi debiti arrivando a quota 300.000 miliardi corrispondenti al 350% del prodotto interno lordo.
I debiti elencati sono certi, per contro qualche perplessità sulla valutazione degli attivi in una realtà inflazionata dall’ipertrofia mi pare giustificata. E se ci dovessimo accorgere che il re è nudo?

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