Il Segretario Generale del Gruppo parlamentare Svizzera-Armenia parla di detenuti in spregio al diritto ONU e dei segreti di guerra in Artsakh

Sarkis Shahinian, Segretario Generale del Gruppo parlamentare Svizzera-Armenia, a Ginevra in occasione dell’incontro Biden-Putin

La guerra del Nagorno Karabakh è vicina a noi: ha avuto luogo tra il 27 settembre e il 10 novembre 2020 e il Caucaso, geograficamente e culturalmente, non è poi così distante dalla Svizzera. Lo scontro bellico tra armeni ed azeri, che in realtà non si può ancora dire completamente concluso, ha lasciato dietro di sé ufficialmente più di settemila morti da entrambe le parti, alcuni dei quali, com’è visibile in certi video, sono stati letteralmente spazzati via da parte azera con le ruspe.
Attualmente, vi sono ancora oltre 30 prigionieri di guerra armeni trattenuti illegalmente in Azerbaigian. La Croce Rossa Internazionale è a conoscenza di questo fatto contrario al diritto umanitario internazionale, ma l’Azerbaigian si rifiuta di liberarli finché gli armeni non cederanno porzioni di territorio rivendicate da ambo le parti.

La Repubblica dell’Artsakh (nome armeno dato a questa regione fin dall’antichità), cuscinetto tra l’Armenia e l’Azerbaigian, è una Nazione che, faticosamente, dopo secoli di dominazioni, tirannie e persecuzioni etniche è finalmente riuscita, nel 1991, a formarsi e ad affermarsi come Stato, ma la sua legittimità a livello internazionale è stata riconosciuta soltanto da tre Paesi (peraltro non appartenenti all’ONU).
Quindi, nonostante la storia millenaria degli armeni viventi in questa regione, testimoniata dalle decine e decine di siti archeologici, chiese, edifici e persino incisioni rupestri, la Repubblica dell’Artsakh non è ancora legittimata a livello internazionale.

Di conseguenza, parlare della guerra dell’Artsakh, non riconosciuto dall’ONU (le Nazioni Unite non ne “certificano” l’indipendenza, ma riconoscono l’esistenza di un’entità autoctona armena all’interno di questo territorio, che riconosce tuttavia come parte integrante dell’Azerbaigian, come fa d’altronde anche la Svizzera), è difficile per chi non conosce direttamente la situazione e non ha familiarità con la popolazione armena.
Svariate regioni del mondo hanno, negli ultimi anni, acquisito sensibilità verso questo popolo che faticosamente ha cercato, ed è riuscito, ad affermarsi come Stato. A partire dal 2012 sono cominciati ad arrivare alcuni riconoscimenti ufficiali da parte di stati federati ed entità territoriali minori come, ad esempio, la Regione Lombardia, che nel novembre 2020 ha riconosciuto la Repubblica dell’Artsakh come Stato indipendente. La Svizzera, in virtù della propria neutralità, potrebbe osare e fare da apripista nel riconoscere a livello internazionale questa piccola Nazione sovrana che, da secoli, lotta per la propria autonomia, così come lo aveva fatto nel caso del Kosovo.

Il conflitto tra azeri e armeni è, soprattutto, una questione etnica e non può essere banalizzato parlando di uno scontro tra cristiani (armeni) e musulmani (azeri) in quanto la religione è stata degradata a mero pretesto bellico.
In questa intervista a Sarkis Shahinian, Segretario Generale del gruppo parlamentare Svizzera-Armenia, cerchiamo di contestualizzare il conflitto, capirne le conseguenze locali e, infine, denunciare il fatto che in un Paese facente parte del Consiglio d’Europa vi siano ancora, attualmente, dei prigionieri di guerra armeni detenuti in Azerbaigian, violando l’accordo tripartito sancito il 9 novembre 2020 e offendendo il diritto umanitario internazionale.

Innanzitutto cerchiamo di capire il movente del conflitto, ancora in atto, tra lo Stato del Karabakh (abitato da armeni autoctoni) che vuole essere indipendente e riconosciuto, e l’Azerbaigian, che vorrebbe prendersi quei territori. È una questione religiosa, di confini o relativa al petrolio?
“Il movente della guerra è molto difficile da riassumere, in quanto tocca più tematiche e, soprattutto, è fortemente incentrato sulla questione etnica ancor più che su quella religiosa. Il controllo del territorio armeno è, per la Turchia come per l’Azerbaigian, un’importante questione strategica. Per questo la Turchia si è prodigata tanto ad aiutare gli azeri. Sicuramente la ricerca di materie prime ha una valenza non indifferente: il territorio del Karabakh, infatti, è ricco, ad esempio, di miniere d’oro, oltre che di acqua e di legname. Il fulcro del conflitto è però da ricercarsi più in ambito politico che economico: è da secoli che l’Impero Ottomano, prima, e la Turchia moderna, poi, hanno mire panturche (il panturchismo è l’ideologia che mira alla riunificazione territoriale di tutti i popoli di ceppo turco, da Costantinopoli fino all’Altaï, creando un’unica entità politica, militare e, in parte, religiosa, ndr) e il fatto che vi siano aree di resistenza al loro progetto, in questo caso gli armeni, li infastidisce. Inoltre, vi è anche il piano etnico che, tra le persone, ha grande rilevanza ed è quello, tra i civili, più sentito. Il discorso del petrolio è sicuramente di grande attualità: la SOCAR, società produttrice di petrolio e gas naturale di proprietà statale dell’Azerbaigian con circa 100.000 dipendenti, crea il 75 per cento del suo fatturato in Svizzera, finanziando in tal modo la guerra degli azeri contro gli armeni. È per via dei legami economici relativi al petrolio con l’Azerbaijan che la Svizzera parla poco volentieri di questo conflitto”.

Secondo alcune fonti d’intelligence alla guerra contro l’Armenia hanno preso parte anche alcuni miliziani dell’ISIS. È vero?
“Questa notizia ormai non è più segreta: anche il Presidente francese, Emmanuel Macro, ha dichiarato che nella guerra del Karabach del 2020 alcuni terribili attacchi contro la popolazione civile sono stati perpetrati da miliziani dell’ISIS. Circa 2 mila fondamentalisti islamici siriani, tracciati tramite GPS dai servizi francesi, sono andati in Karabakh a combattere gli infedeli postando su Instagram i video di terribili esecuzioni sommarie e di torture (In un video si vede un prigioniero armeno inginocchiato che chiede pietà: ha le cavità oculari prive degli occhi, ndr). In questi casi è però importante sottolineare che la questione religiosa è soltanto un pretesto con cui fomentare la guerra. La religione è strumentale, come durante il genocidio del 1915. La religione era soltanto un mezzo con cui aizzare la popolazione dell’Azerbaigian contro agli armeni, alimentando odio religioso e razziale”.

Amnesty International ha documentato l’uso di fosforo bianco, che corrode le persone e annienta foreste, nonché di bombe a grappolo. Ce ne parli…
“L’Azerbaigian ha usato moltissime armi di distruzione di massa durante la guerra. È stato un vero massacro. Va detto che entrambi gli schieramenti hanno adoperato tali armi. Tuttavia, le bombe al fosforo azere hanno arrecato danni impressionanti alle persone e alle foreste. Chilometri e chilometri quadrati di foreste armene sono state devastate, oltre agli attacchi mirati contro le popolazioni civili, gli ospedali (la maternità di Stepanakert, capitale dell’Artsakh, e di Mardunì) e ai luoghi di rilevanza storica, come le chiese. In questa guerra hanno perso la vita tantissimi civili giovanissimi (purtroppo, le vestigia armene, come siti archeologici, necropoli, khatchkar, cioè steli di croce in pietra, chiese, monasteri non sono sotto protezione dell’UNESCO; c’è tuttavia una nuance importante, poiché la stessa UNESCO, alcuni anni or sono, ha incluso i khatchkar armeni nel patrimonio culturale immateriale dell’umanità senza specificare la loro collocazione, tenuto conto del fatto che ve ne sono sparsi in tutto il territorio dell’Armenia storica, ndr)”.

Chi ha fornito armamenti e sostegno all’esercito azero?
“La Turchia si è impossessata di tutta l’organizzazione dell’esercito dell’Azerbaijan. I turchi, prima dell’attacco del 27 settembre, hanno trasferito una quantità impressionante di armamenti, specialmente aerei e droni, nonché di formatori nella regione di Ghianja. Israele ha fornito droni ad alta tecnologia agli Azeri. L’intento è di rinsaldare un’alleanza con Baku e ha contribuito, dopo la fine della guerra, alla costruzione dell’aeroporto di Fisulì per controllare l’Iran. Inoltre, questa guerra è stata sostenuta anche con l’intervento diretto dell’esercito del Pakistan. Il Pakistan è una potenza nucleare, ed è ancora l’unico Paese a non aver riconosciuto l’indipendenza dell’Armenia”.

Che cosa si può dire di questo conflitto, sconosciuto ai più?
“La guerra dell’autunno 2020 non è stata lanciata ufficialmente contro l’Armenia, ma contro gli armeni del Karabakh. Gli attacchi su territorio armeno, per esempio l’abbattimento di un velivolo militare armeno nei cieli di Vardenis da parte di un F-16 turco alzatosi in volo dalla base militare di Gyandza, nonché l’attacco di alcuni basi militari in Armenia con droni israeliani, aveva unicamente valenza strategica. Tuttavia, dopo la firma della dichiarazione congiunta di armistizio del 9 novembre 2020, l’Azerbaigian ha attaccato a più riprese la frontiera armena, soprattutto a partire dal 12 maggio 2021: lì sì per ridurre l’entità territoriale armena, questione attualmente al vaglio di una commissione tripartita (Armenia, Azerbaigian e Russia) incaricata di definire la delimitazione e la demarcazione tra i due Stati”.

Come mai è dovuto intervenire Vladimir Putin per fermare la guerra il 10 novembre 2020?
“La guerra tra azeri ed armeni non è finita: basti pensare che ci sono ancora diverse decine di prigionieri di guerra armeni detenuti illegalmente in Azerbaigian che aspettano di essere liberati. Gli azeri li utilizzano come merce di scambio per barattarli con il consenso da parte armena di creare un corridoio di transito a statuto speciale, non controllato dall’Armenia, che colleghi il Nakhitchevan (l’enclave azera fra Turchia, Armenia e Iran) e il resto dell’Azerbaigian, punto che Baku ha introdotto successivamente alla firma dell’armistizio del 9 novembre 2020, in cui si parlava soltanto di aprire le vie di comunicazione tra i due Paesi, senza parlare di corridoi a statuto speciale. Inoltre gli azeri, come è stato documentato, hanno recentemente eseguito diverse incursioni sul territorio armeno: il 12 maggio hanno occupato ampi tratti dell’autostrada che collega la città di Goris con quella di Gapan, il 13 luglio 2021 hanno sparato coi droni nei pressi della miniera d’oro armena di Sotk, eccetera. Per tornare alla vostra domanda, durante la guerra gli accordi di ‘cessate il fuoco’ sono stati tre, e violati immediatamente nei primi due casi da parte dell’Azerbaigian per acquisire il più velocemente possibile dividendi territoriali e utilizzando l’arma del terrore, continuando a massacrare i civili. Di conseguenza il presidente Putin è intervenuto prima che la situazione degenerasse completamente, ma solo quando gli armeni non hanno più avuto alcuna possibilità di difendere l’integrità territoriale dell’Artsakh. Hadrut e Shushì erano già cadute in mano azera”.

Che cosa è il parco dei trofei di guerra?
“Il parco dei trofei di guerra è una sorta di tetro museo delle cere e un luogo di esposizione di materiale da guerra confiscato agli armeni durante il conflitto, in cui gli azeri celebrano il loro odio etnico verso agli armeni. Vi sono, ad esempio, esposti ed appesi gli elmi di armeni morti in guerra: è un luogo che fa venire i brividi, e grazie all’intervento di alcuni enti umanitari, ma soprattutto alla vigilia della decisione della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, le esposizioni peggiori e più svilenti nei confronti del genere umano sono state rimosse. Vi sono manichini di cera che emulano soldati armeni morenti, contro cui i bambini azeri sono invitati a inveire e urlare insulti. Questo parco dei trofei di guerra è l’espressione della più limpida volontà di estendere e divulgare l’odio razziale nei confronti del popolo armeno, finalizzato al suo totale annientamento”.

Quali sono i suoi sogni e le sue speranze relative il futuro dell’Armenia?

Pace e prosperità, e questo per tutti i popoli della regione. Ma la conquista della pace è da sempre un’opera di difficile realizzazione, molto più che e il lancio di una guerra. Da entrambe le parti le vittime sono molte. Non creda: anche l’Azerbaigian ha registrato una quantità impressionante di vittime, molto probabilmente il doppio che non da parte armena, ma non ne parla, perché questo non renderebbe onore alla famiglia Aliyev e alla sua strategia. Ma il risultato di questa come di altre guerre nel mondo è la scomparsa di un’intera generazione e la rovina di intere famiglie che vedevano nei loro giovani figli l’unica fonte di sostentamento e sopravvivenza in una società costituita sempre più su una concorrenza spietata. Per quello abbiamo bisogno, da entrambe le parti, di creare una società spogliata da qualsiasi tipo di odio razziale. Per quanto riguarda gli armeni, i miei sogni sono tanti e differenziati. Prima di tutto, il ristabilimento di una vera sicurezza nazionale, basata non sul mito dell’invincibilità, ma sulla vera capacità di creare gli strumenti che impediscano lo smembramento del territorio. Quindi, il ristabilimento di un sistema politico, economico e sociale capace di creare sviluppo sostenibile, basato su un sistema di istruzione e di riappropriazione culturale che non riproponga pedissequamente valori del passato senza contestualizzarli nel presente e, ancora di più, nel futuro, ma sappia anticipare gli eventi e costruisca una società effettivamente forte ed equilibrata. Per tutto questo è necessaria una classe politica efficiente e, pertanto, altamente competente. Ma in questo momento l’Armenia non vive quasto tipo di realtà e l’élite politica armena non sembra aver ben compreso queste sfide. Dalla diplomazia, all’economia (in particolare lo sviluppo delle tecnologie di punta, la densificazione e la produttività dell’agricoltura, nonché lo sviluppo delle fonti di energia rinnovabile), chiaramente senza dimenticare il sistema di difesa e di intelligence, l’Armenia si trova ad affrontare sfide messe a nudo da questa guerra che ha avuto perlomeno il merito di riportarci con i piedi per terra. La mia personale speranza (che tuttavia rappresenta anche quella di numerosi armeni sparsi in ben 87 Paesi nel mondo) è di vedere la diaspora armena riappropriarsi di un ruolo che è quello di mantenere e divulgare i propri valori culturali e linguistici, ma anche di sostenere a spada tratta gli interessi di questi due piccoli territori dell’Armenia storica – la Repubblica di Armenia e la Repubblica dell’Artsakh – ancora abitati da armeni per rafforzarli e impedire che si svuotino per l’esasperazione di chi è rimasto. Ma perché sia in condizioni di farlo, la diaspora deve rimettere in discussione determinati suoi valori atavici e orientarsi al futuro, comportandosi in maniera intelligente e costruttivo. In questo senso, mi auguro che il riconoscimento internazionale del genocidio degli armeni non venga visto unicamente come atto simbolico, ma sia compreso nella sua vera essenza politica e strategica, da parte di tutte le componenti della società armena, in Armenia come in Diaspora. Se è vero che il Mèdz Yeghérn (espressione idiomatica armena per definire il genocidio del 1915) è parte integrante dell’identità di ogni singolo armeno, bisogna essere capaci di trasformarlo in una posizione di forza, spogliandolo da ogni possibile autocommiserazione e impedendo di distruggerci interiormente a chi invece vuole sminuire la resilienza del nostro popolo.

L’intervista è già apparsa sul portale web dell’associazione Swiss Federalism