Alle origini della crisi: l’Indipendenza dell’Ucraina dall’Unione Sovietica; l’indipendenza della Crimea e del Donbass dall’Ucraina

La crisi Russo-Ucraina ha due radici, tra loro connesse: l’indipendenza dell’Ucraina dall’Unione Sovietica e il gas.

L’Ucraina dichiarò la propria indipendenza e sovranità dall’Unione Sovietica il 16 luglio 1990, stabilendo i principi di autodeterminazione e democrazia, e, soprattutto, l’indipendenza politica, economica e legislativa rispetto al diritto sovietico. Dopo un golpe fallito, il 24 agosto 1991 il Parlamento ucraino adottò l’Atto d’indipendenza dell’Ucraina attraverso il quale il Parlamento dichiarò l’Ucraina uno Stato indipendente e democratico; il 1º dicembre 1991 il 90% dell’elettorato chiamato a votare al referendum, espresse il proprio consenso all’Atto d’Indipendenza. Il 21 dicembre, i leader di Bielorussia, Russia e Ucraina dissolsero formalmente l’Unione Sovietica e formarono la Comunità degli Stati Indipendenti (CSI). I postumi dell’1989 e la caduta del Muro si riversavano sul nuovo decennio.

I rapporti con la Russia furono inizialmente molto tesi, anche a causa delle ingerenze della NATO in Ucraina, e videro alternarsi presidente filo-russe e indipendentiste: eletto nel 1991, il filo-ucraino Kravčuk fu sconfitto nel 1994 dalfilo-russo Leonid Kučma, rieletto anche nel 1999. destituito Viktor Juščenko, eletto l’anno precedente, dal 21 novembre 2002 fu nominato primo ministro Viktor Janukovyč.

Il nuovo secolo si inaugurò alla luce di altre tensioni: in seguito alle elezioni presidenziali dell’ottobre/novembre 2004, che avevano visto l’elezione a presidente del filosovietico Viktor Janukovyč, sorse il movimento di protesta chiamato “Rivoluzione Arancione” composto da sostenitori di Juščenko. A seguito delle proteste, la Corte Suprema ucraina invalidò il risultato elettorale e fissò nuove elezioni per il 26 dicembre, che portarono ad una vittoria schiacciante Juščenko. La “Rivoluzione Arancione” aveva avuto il forte sostegno degli Stati Uniti e dell’Unione europea, anche per il conseguente spostamento politico dell’Ucraina verso l’Unione europea.

Approfittando del sostegno occidentale, l’azienda ucraina Gazprom iniziò a tariffare il gas all’Ucraina al prezzo di 230 dollari per 1000 m³, aumentando considerevolmente la precedente tariffa di 50 dollari, da sempre un prezzo di favore della Russia verso l’Ucraina.

La guerriglia politica tra Janukovyč e Juščenko si protrasse sino al 30 settembre 2007, quando lsfociò in elezioni parlamentari anticipate, frutto di un accordo- alfine raggiunto – tra Juščenko, Janukovič ed il presidente del parlamento, Oleksandr Moroz, che portò, tuttavia, ad un esito assai controverso. Il governo fu tuttavia sciolto l’anno successivo, a causa di un’altra crisi politica, causata dalle reazioni alla guerra in Ossezia del Sud.

Alle elezioni del 2010 fu eletto Presidente della Repubblica il filosovietico Viktor Janukovyč, che accusò l’avversaria Julija Tymošenko di malversazione di fondi pubblici e di aver siglato con la compagnia russa Gazprom un contratto per la fornitura di gas naturale giudicato inutilmente oneroso per il paese. La Tymošenko fu infatti condannata a sette anni di reclusione per abuso d’ufficio.

Poiché il presidente Janukovyč, filorusso, riuscì a far sospendere un accordo di associazione tra l’Ucraina e l’Unione europea, dal 2013 iniziarono forti proteste pro-europee contro il Presidente, il quale, dopo violentissimi scontri culminati nei giorni 18-19-20 febbraio 2014, all’alba 22 febbraio fuggì da Kiev.

Con l’elezione straordinaria del nuovo governo di Oleksandr Turčynov, Julija Tymošenko fu scarcerata.

La Russia aumentò così il costo del gas che prima veniva fornito all’Ucraina ad un prezzo “amichevole”.

Il nuovo governo Jacenjuk gestì le nuove elezioni che portarono Petro Porošenko a divenire il nuovo presidente dell’Ucraina, il quale il 27 giugno 2014 firmò l’Accordo di associazione tra l’Ucraina e l’Unione europea.

Quasi contemporaneamente, però, il 22 e 23 febbraio 2014, Repubblica di Crimea  aderì alla Federazione Russa, e il 26 febbraio militari russi senza insegne presero il controllo della penisola e, con un colpo di stato, instaurarono come nuovo leader locale il filo-russo Sergej Aksënov.

l’Espansione della NATo a Est

Sergej Aksënov annunciò un referendum per garantire alla popolazione, russa, maggiore autonomia da Kiev. Con il sostegno, giunto il 28 febbraio, dell’ex presidente Janukovyč, Vladmir Putin, il 1º marzo, fu autorizzato dalle due camere della Duma russa ad utilizzare le truppe russe in Crimea.

La nuova leadership filorussa in Crimea dichiarò unilateralmente l’indipendenza l’11 marzo 2014 ed organizzò un referendum sull’autodeterminazione il 16 marzo, a seguito del quale la penisola venne annessa alla Russia tramite un trattato firmato due giorni dopo.

Il governo ucraino non riconobbe la Repubblica di Crimea e anzi, la dichiarò “territorio ucraino temporaneamente occupato dalla Federazione Russa”.

Dall’8 settembre 2014 le guardie di frontiera ucraine presenti nell’Oblast’ di Cherson presero a richiedere incessantemente ai cittadini ucraini il passaporto o la carta d’identità ucraina.

Anche l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite invalidò il referendum della Crimea e il 27 marzo lo dichiarò non valido.

Successivamente, il 7 aprile 2014 anche l’Oblast’ di Donec’k dichiarò l’indipendenza dall’Ucraina in seguito a un referendum e pochi giorni dopo l’autonominato presidente della Repubblica Popolare di Donetsk Pavel Gubarev dichiarò la futura annessione alla Russia.

Quando i reparti d’artiglieria e un convoglio umanitario russi entrarono nel Donbass e la Nato schierò truppe militari al confine con l’Ucraina  (con il sostegno dell’allora Videpresidente degli Stati Uniti, Joe Biden); iniziò la cosiddetta guerra del Donbass.

Il 2 maggio 2014 a Odessa si ebbero scontri di piazza tra le fazioni contrapposte, tra gli estremisti di destra filo-ucraini e i partiti di estrema sinistra filorussi.

Questi ultimi si rifugiarono nella Casa dei Sindacati, ma qui vennero letteralmente assediati, massacrati e seviziati dai militanti di estrema destra, che successivamente circondarono l’edificio e appiccarono il fuoco. Morirono orribilmente 42 persone (34 uomini, 7 donne e un ragazzo di diciassette anni), alcuni dei quali anche estranei ai fatti.

Il nuovo governo ucraino di Oleksandr Turčynov parlò di una fatalità che era costata la vita a circa 30 persone, mentre la stampa filo-ucraina attribuì l’incendio ai manifestanti filo-russi. La versione fasulla venne però smentita dalle testimonianze dei sopravvissuti e di vari osservatori.

Dal 2015, il Vicepresidente USA Joe Biden concordò con la Burisma Holdings, la maggiore compagnia energetica dell’Ucraina (attiva sia su gas che petrolio), l’assunzione di suo figlio Hunter Biden (espulso dalla marina americana perché positivo alla cocaina) alla carica di consulente, con uno stipendio da capogiro, 50mila dollari al mese.

Nel 2017 Donald Trump riuscì a vincere le elezioni USA anche screditando l’avversaria Hillary Clinton, grazie alle azioni informatiche pilotate dagli hacker russi, come poi accertato dalla CIA:

Nel 2019 salì, alla carica di Presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelens’kyj, laureato in giurisprudenza ma comico di professione, con una casa di produzione teatrale.

Nel 2020, tentando di ricandidarsi alla presidenza degli Stati Uniti,  Trump provò a screditare, così come aveva fatto con Hillary, l’avversario Biden, cercando di far emergere le attività illecite presenti nei rapporti di Hunter Biden con la Burisma Holdings.

Il Tycoon chiamò così Zelensky, chiedendogli di indagare sul figlio di Biden; Zelensky però rifiutò perché la Burisma Holdings aveva, nel frattempo, messo gli occhi (e le mani), sulle ricche zone di Donespt, ritenute colme di giacimenti di gas non ancora esplorati, con il sostegno, ovviamente, di Hunter Biden e di suo padre, Joe.

Zelensky rifiutò così di andare contro il proprio alleato statunitense e impiegò la telefonata ricevuta da Trump per accusare quest’ultimo di impeachment, da cui, però, il Tycoon fu poi assolto.

Il 20 gennaio 2021 Zelenskj salutò l’elezione di Biden alla Presidenza USA, il quale schierò le truppe della NATO al confine con l’Ucraina.

Il resto, purtroppo, è storia, anzi, attualità, sulla pelle dei civili.

Forse, l’unica lezione che possiamo trarre da questi eventi è che l’Unione Europea e gli USA riconobbero l’indipendenza dell’Ucraina, salutando la perdita di potere della secolare nemica, l’Unione Sovietica; mentre non riconobbero l’indipendenza del Donbass e della Crimea, temendola, come un potere riacquistato da parte della Madre Russia.

In altri termini, l’indipendenza è riconosciuta sì, ma solo se è dall’(ex) Unione Sovietica; e non è riconosciuta se è da un Paese che anela ad annettersi all’Unione Europea, a discapito della Russia, l’Ucraina, per l’appunto.

In altre parole ancora, l’UE riconosce la validità di un referendum solo se questi è a discapito della Russia (come quello del 1990 dell’Ucraina), e non dell’Ucraina (come quelli della Crimea e del Donbass del 2014).

L’UE e gli USA appaiono consapevoli che la Federazione Russa non è più quella post 1989, e vogliono vietarle il riconoscimento dei potentati (russi) della Crimea e del Donbass, ad ogni costo: anche impiegando la Nato, l’Ucraina e la (conseguente) vita dei civili innocenti.