Alexander Rodnyansky, consigliere del presidente ucraino Zelensky e negoziatore per l’Ucraina, intervistato da Lilli Gruber a Otto e mezzo su La7, ha candidamente annunciato che se l’Italia non manderà le armi all’Ucraina, la Russia invaderà l’Italia.

Secondo Rodnyansky l’obiettivo degli ucraini sarebbe quello di fermare la guerra, ma i negoziati avrebbero subito dei forti rallentamenti, mentre i russi mentirebbero nel sostenere di essere interessati alla pace.

Di controcanto, l’ambasciatore russo Sergei Razov si dice preoccupato per l’invio di armi italiane in Ucraina. Il premier Mario Draghi, infatti, si dice impegnato al Consiglio europeo sulla crisi ucraina a Bruxelles ma la maggioranza si divide sull’aumento delle spese militari; contemporaneamente, infuria la polemica per la decisione dell’Italia di dire sì all’invio delle armi a Kiev.

L’ambasciatore russo dichiara, quindi: “ci preoccupa che gli armamenti italiani saranno usati per uccidere cittadini russi” e contesta il fatto che “la decisione è stata presa quando è iniziata la prima tappa delle trattative: i fucili vengono distribuiti non solo tra i militari, ma anche tra i cittadini e non si capisce come e quando saranno usati”.

Sergey Razov ha poi ricordato l’aiuto della Russia fornito all’Italia durante la Pandemia: “la missione russa è terminata quando l’Italia ha proposto di terminarla. Le autorità italiane hanno espresso gratitudine nel 2020 per quanto fatto. Al popolo italiano è stata tesa una mano di aiuto, ma se qualcuno la morde non è onorevole” ha concluso.

Contro l’invio di armi in Ucraina contro la Russia, si pone il segretario dem che dichiara “se in questo momento noi scegliessimo investimenti massicci sulle spese militari, sarebbe – lo dico con forza – una scelta ignobile”.

Il “nazionalismo economico” dell’Italia è tramontato, l’era dello stato sovrano non esiste più e, con ogni probabilità, l’Italia si dovrà assoggettare alle richieste dell’Unione Europea.

In primis, il “nazionalismo economico”  rovinò in America, nella celebre crisi del ’29, quando a politica isolazionista e nazionalista, basata sulla più completa libertà di iniziativa individuale, condusse gli USA alla più rovinosa crisi economica e sociale della storia; negli anni Venti, infatti, la produttività industriale e agricola avevano conosciuto un aumento vertiginoso, senza fare i conti con la saturazione del mercato interno, mentre i governanti si erano mostrati contrari all’intervento dello Stato nell’economia.

Esattamente il contrario della situazione attuale, dove, per esempio in Italia, è l’economia a governare sovrana sullo Stato.

La produttività dell’industria – al di sopra di ogni possibilità di assorbimento- portò, tra il 24 e il 29 ottobre 1929, al crollo di Wall Street: l’evento che cambiò per sempre la fisionomia economica degli Stati Uniti.

Negli USA, la soluzione fu trovata dal 32esimo Presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, il quale propugnò un piano di riforme economiche e sociali con l’obiettivo di far ripartire il Paese dopo quella che era stata la Grande Depressione del 1929, la quale aveva fatto precipitare gli indici della borsa di New York con effetti a catena devastati sugli istituti di credito e sulle industrie, avendo anche notevoli ripercussioni in Europa.

Già teorizzato, in precedenza, da Lord Keynes, il piano prese il nome di New Deal e si basò sull’impostazione di un nuovo rapporto tra Stato ed economia.

La prima misura attuata da Roosevelt per contrastare la dinamica fu quella di alzare le barriere doganali che, tra il 1929 e il 1930, determinano un calo del 25% del commercio internazionale.

Le ripercussioni del venerdì nero, però, continuarono a ripercuotersi in Europa (la quale era ancora alle prese con le riparazioni di guerra), dove cessarono gli investimenti americani; nel settembre del 1931 venne svalutata la sterlina inglese, seguita dalla svalutazione del franco francese.

Riconosciuta dalla (pur fallita) conferenza internazionale di Londra dell’estate del 1933, la crisi continuò a mietere indirettamente vittime, come la Germania e l’Italia, che, virando verso un isolamento progressivo scelsero un’economia autarchica, araldo dei totalitarismi.

Oggi, l’autarchia è chiaramente stata esorcizzata dopo l’esperienza dittatoriale tragicamente implosa nella seconda guerra mondiale, ma la situazione pare avere ritrovato il pericoloso principio della crisi del’29 ovvero la libera iniziativa delle singole imprese che domina sullo Stato, quest’ultimo assoggettato all’economia. Così, l’industria delle armi premerebbe per far volgere uno governo – non più forte del governo Salandra II che non riuscì ad arrestare la disastrosa entrata in guerra dell’Italia nel 1915 – all’entrata in guerra in un conflitto che, in fondo, all’Italia non pertiene.

Se, negli USA; con la crisi del 1929, era tramontata definitivamente l’idea perseguita dalle amministrazioni repubblicane dello” sviluppo armonico del capitale”, ora, in Italia, stiamo assistendo all’imposizione del capitale sulla Repubblica.   

D’altra parte, le soluzioni trovate dal democratico Roosevelt, eletto nel novembre del 1932, sono antitetiche a quelle proposte e attuate dal governo Conte e mantenute dal governo Draghi (reddito di cittadinanza, in primis). Roosevelt proponeva infatti il potenziamento dei lavori pubblici per favorire la diminuzione della disoccupazione, il sostegno ai prezzi agricoli per impedire l’ulteriore abbassamento del tenore di vita degli agricoltori, lo sviluppo e l’unificazione delle attività assistenziali, la regolamentazione dei trasporti e dei servizi pubblici e soprattutto il controllo – da parte dello Stato delle banche e degli istituti finanziari, in conclusione, un disciplinamento dei rapporti tra capitale e lavoro.

Roosevelt capovolse, quindi, il precetto repubblicano basato sul minimo intervento dello Stato nella società civile, ma, anche attraverso un innovativo rapporto diretto con le masse (i discorsi del caminetto, così lontani dai post insensati e vuoti di Di Maio o di Salvini), inaugurò un nuovo rapporto tra Stato, industriali e forze lavoratrici.

Nei cosiddetti “cento giorni”, Roosevelt favorì il rialzo dei prezzi per incrementare i profitti delle imprese e salvaguardare il pagamento dei debiti, operò una politica deflazionistica per ridurre la circolazione monetaria, ridusse le spese dell’amministrazione centrale e gli stipendi degli impiegati pubblici.

Per imitarlo – in modo ridanciano – i parlamentari italiani hanno deciso – in marzo – di accendere un’ora dopo il riscaldamento della Camera.

Ancora, nel maggio del 1933, Roosevelt creò il Works progress Administration e il Public Works Administration, per favorire l’occupazione e le piccole e medie imprese; quindi promulgò l’Agricoltural Adjustament per sostenere l’agricoltura, regolamentare la produzione e si ridurre il tasso di indebitamento; affidò alla Federal Emergency Relief Administration lo sviluppo delle opere pubbliche, con il compito di limitare la forte disoccupazione e distribuire i finanziamenti pubblici. Infine, riorganizzò la produzione industriale con la National Industrial Recovery Administration, che prevedeva la regolamentazione dei prezzi, dei salari e degli orari di lavoro nonché, con la legge Wagner, del 1935, garantiva l’attività sindacale dei lavoratori.

Se, da un lato, il New Deal di Roosevelt, quindi, segnava la fine dell’idea della completa autonomia del capitale, dall’altro poneva le basi per una nuova ristrutturazione capitalistica, attraverso il nuovo ruolo dello Stato nella vita economica. Grazie al sodalizio organico tra grande capitale e direzione statale, gli USA poterono uscire dalla crisi.

Il New Deal rooseveltiano si ispirava, come detto, alle teorie dell’economista inglese John Maynard Keynes (teorie dell’impiego, dell’interesse e della moneta) e, oltre a prevedere che i tassi di interesse operati dagli istituti di credito fossero tenuti bassi per agevolare i prestiti alle imprese e scongiurare un futuro crollo, si basava sul sistema di tassazione dei redditi e dei profitti da parte dello Stato per assicurare al potere esecutivo il ruolo di centro di coordinamento dell’economia nazionale. Così, il programma keynesiano fu adottato da alcuni governi europei, come quelli inglese e francese, ma non da quello italiano che precipitava verso l’autarchia.

Il New Deal statunitense prevedeva il superamento del Gold Standard (ovvero della valutazione della moneta in rapporto alla quantità di riserve auree) attraverso un sistema di collaborazione e di scambi internazionali facendo riferimento alle reali capacità economiche di ciascun paese.

Dalla crisi, cioè, si esce grazie a validi governanti, fautori, anche della pace e non della guerra. Roosevelt sarebbe morto proprio nella tragica primavera del 1945, quando il mondo, ormai, sembrava implodere, quando, peraltro, gli USA avevano già deciso di invadere l’Europa contro il nazifascismo.

Quindi, se, da un lato, il New Deal può sembrare un’ossimorica risposta all’inutilità di far sì che un paese già in crisi (e l’Italia, ancora reduce dalla crisi del 2009 e del 2011, è tale) scenda in guerra schierandosi con l’Ucraina, dall’altra, la realtà fattuale mostra un ‘America, uscita dalla crisi, pronta a schierarsi contro la Germania nazista. Nel marzo del 1941 Dwight Eisenhower, disse dell’Italia “Stiamo per invadere un Paese ricco di storia, di cultura e d’arte come pochissimi altri. Ma se la distruzione di un bellissimo monumento può significare la salvezza di un solo nostro soldato, ebbene, si distrugga quel bellissimo monumento”.

Ma l’Italia non è la Russia, l’Ucraina non è l’Italia e, soprattutto, l’Italia non è gli Stati Uniti.