Nelle librerie, la sesta raccolta del poeta lombardo parmigiano d’adozione

La memoria dei senza nome, sesta raccolta di poesie di Luca Ariano, è suddivisa in quattro parti. La prima, Damnatio memoriae, sembra ricalcare, nel titolo, quello dell’intera raccolta, le altre, invece – Amore Capitale, Arresto del Sistema e Anima Digitale – si presentano come una critica, graffiante e disincantata, alla contemporaneità, da un lato invasa dall’alienazione digitale, dall’altro priva degli ideali partitici e politici del secolo scorso: a tal proposito, Ariano sceglie, come introduzione della prima sezione, una frase di Gramsci contro l’indifferenza (abulia, parassitismo, vigliaccheria, non vita) e a favore della militanza (“Io odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani”) che calza a pennello, ma contrasta paurosamente con la realtà messa in scena dal poeta. Un panorama realistico, in cui i protagonisti, forse a tratti inetti, non possono far altro che rassegnarsi, alla travolgente ed asettica contemporaneità che li risucchia in un vortice schematico e privo di anima. C’è il Giggino muto spettatore del mutar delle stagioni (“è una triste primavera” / sussurri a denti stretti Enrico / mentre fuori batte la pioggia d’aprile…), c’è il Fiulin, che assiste alla mutevolezza della società (Fiulin quando fuggi curvando / sulla tangenziale Tesori auto / e sempre pensi a lui. (…) Storie di famiglia. (…) hanno delocalizzato? Venduto a cinesi?) c’è l’Emilio (disincantato  professore delle medie, che avevamo già incontrato nelle altre raccolte di poesie di Ariano) che vedrà sulle spiagge / turisti mescolarsi a migranti, l’Enrico, che ascolta il Fiulin “parlando dei suoi amori / terminati in un fosso in secca (…) mentre cala un crepuscolo lombardo”; ed infine c’è Rosa tra il profumo di tè / e vodka, il sapore di dolci d’autunno e Teresa, forse un simbolo, oltre che una donna dalla personalità precisamente delineata (Quante Terese e Bell’Iridi smarrite?).

Il poeta Luca Ariano

La seconda parte, Amore Capitale, introdotta da un’asserzione di Walter Benjamin (“nel captalismo va individuata una religione”…) si configura invece come un ritratto delle disillusioni contemporanee. I personaggi sono gli stessi, ma il destino che presentano è ora compiuto, senza possibilità di redenzione alcuna (Rosa è stanca, Fiulin, l’ascolti parlare / del lavoro davanti ad una tazza mai piena…). È il ritratto del capitalismo schiacciante, pesante, imponente (In una domenica di pioggia laora l’Enrico: / per cosa, ormai? Debiti… un mutuo… / il futuro per chi?); un ritratto che però si riversa sui volti dei singoli, impietose vittime di una realtà segregata e prescritta dalle multinazionali, che, attraverso l’imposizione della “moda”, resa necessaria grazia alla crudele astuzia del marketing, aboliscono i sensi, obliano la sensuale corporeità, l’umanità, sottomessa ad un piacere tecnologico, indotto, che crea dipendenza (Ripensi a Marina… quelle parole: / “alla sera solo Netflix! / Non lo facciamo da mesi”).

La terza parte, Arresto del Sistema, mette in scena il contrasto tra le illusioni dell’infanzia e l’accettazione della vita adulta (troppo presto smise di giocare / il piccolo Elias arrampicato / su un albero quando la madre / dalla finestra gridò: / “è morto tuo padre!”). ma è proprio qui che avviene “l’arresto del sistema”, ovvero il cortorcuito, il punto di non ritorno dell’incontro tra la speranza e l’illusione. Introdotta dalle scarne, essenziali e mirabilmente angoscianti parole del “libretto d’istruzione” Windows, la sezione preannuncia la successiva, in cui il digitale prevarica sulla vita e forse anche sui sensi, ma non può permettersi di obliarli, perché proprio la consapevolezza di tale prevaricazione, forse, salverà l’uomo, sbandato, nel vortice di una contemporaneità senz’anima.

La quarta e ultima parte, Anima Digitale, è introdotta a proposito, dai celebri tre “comandamenti” dei robot di Isaac Asimov, quindi, n un sapiente destreggiarsi a mezza via tra l’ironia e la disincantata consapevolezza della caducità del tempo e dell’amore, Ariano si slancia in un ritratto dei corteggiamenti, dai Sapiens, ai Neanderthal (geni incrociati in quella grotta / (…) cosa rimarrà del vostro corpo? / Carni intrecciate nella passione) sino agli Antichi Romani (dietro il nomen di “Marco Ulpio” riecheggia quello di “Traiano”, però taciuto), intrecciando la conquista militare a quella amorosa (Marco Ulpio mai più tornò a Roma / nel soffice lutto; / oltre gli argini di quel fiume capì / che non avrebbe conquistato / più nulla… solo il nulla). Anche in questa sezione, ritroviamo gli stessi personaggi, trasmutati, però: (forse meglio di un robot / programmato come Giggino), trasmutati, cioè, all’insegna della tecnologia, dell’Anima, Digitale, per l’appunto. Citando Petrarca (ma ambientando la poesia nel “quartiere operaio” Luca Ariano tesse, con disincantato realismo, il contrasto tra la passione carnale e i relitti di una civiltà industriale post moderna, nel pittoresco dipinto di un amplesso che avviene in una casa sita tra l’archeologia industriale. Perché Ariano, alla fine, dimostra ancora una volta di essere, oltre che poeta, anche pittore, ma il suo pennello è la penna (o la tastiera del computer?), ed i suoi colori, le parole. Con La memoria dei senza nome, Luca Ariano si riafferma come un poeta che sceglie, con cura, le semplici parole pure, nella loro quotidiana, polisemica ed intrinseca difficoltà.