Il 19 giugno i francesi hanno eletto il Parlamento. Non entro nei dettagli già ampiamente diffusi e mi concentro sul pesante insuccesso di Macron. Per una lettura più articolata del risultato è opportuno ricostruire motivi e vicende che hanno portato nel 2017 Emmanuel Macron alla presidenza. 

Verso la fine del mandato dell’allora Presidente Franois Hollande, la rete del potere francese – vale a dire gli alti gradi dell’Amministrazione, un certo mondo intellettuale e accademico con al seguito parecchi media, circoli della Parigi bene sempre un po’ radical chic, esponenti della finanza, dell’economia – era in chiaro che Hollande non era ripresentabile, non da ultimo anche per imperdonabili gaffes quali quella di definire la povera gente «les sans dents». L’ufficio studi del Partito Socialista aveva da qualche anno suggerito di abbandonare le classi operaie – ormai imborghesite e che si sentivano meglio rappresentate dalla Le Pen -a favore degli immigrati e dei discriminati, creando confusione nei quadri. Ecologisti, Verdi ed altri movimenti sfuggivano all’inquadramento nel Partito. Per evitare una disfatta si doveva trovare un’alternativa, Fillon, il candidato gaullis la avversario, sostenuto anche dal voto dei cattolici della Francia profonda e con un buon programma, sarebbe stato difficile da battere. Il potere avrebbe cambiato di mano. Un’avidità pari solo all’arroganza ha portato Fillon ad incassare negli anni 800.000 curo per attività di assistenza parlamentare del tutto inesistenti da parte di sua moglie. Saputolo, gli elettori lo hanno rifiutato. Con un avversario indebolito, si è escogitata la soluzione, con un progetto di notevole intelligenza politica, per mantenersi al comando. Partiti e politici essendo in discredito con «gattopardesca» abilità si è annullato il passato per ripresentarlo aumentando il potere della rete di comando. Si è trovato un giovane – qualità importante – preparato, competente, arrivato al governo come ministro delle Finanze, non per le vie partitiche ma per chiamala del presidente, di indefinibile orientamento ideologico, vagamente di sinistra ma con un passato da banchiere, sufficientemente spregiudicato per voltare le spalle a Hollande che lo aveva promosso e abile nei discorsi ondivaghi. Tra i suoi sostenitori intellettuali di peso quali Attali, già consigliere di Mitterrand, e Mine.  

In una realtà di una politica stanca, spesso acefala e paralizzante, con partiti esangui, riottosi e attenti più alle poltrone che alle progettualità, in una società delusa, Macron è diventato il nuovo che entusiasma. In pochi mesi anche di genuino slancio viene eletto a presidente e si costituisce una nuova formazione politica fuori dai partiti esistenti che ottiene la maggioranza assoluta in Parlamento. Operazione che sposta pericolosamente gli equilibri politici a favore del presidente (di una Repubblica già presidenziale) a scapito di un Parlamento che scende ad organo di registrazione delle decisioni dell’Elysée. 

Macron, impegnato a non permettere che lo si qualifichi secondo i vecchi schemi politici, chiama a membri del Governo personaggi contraddittori che vanno dall’ecologismo estremo al rigore finanziario. Non vi sono più valori e conseguenti orientamenti politici, vi sono solo problemi in vari campi da risolvere in modo tecnocratico. 

Il primo grave incidente di percorso è con i «gilet jaunes». Le misure contro l’inquinamento delle automobili (con qualche punto di isteria) vanno bene per i parigini che si spostano in bicicletta e dispongono di servizi di trasporto pubblici, ma dimenticano le province desertificate, abbandonate (leggere Christoph e Guilluy «La France périférique »), dove tutto è difficile e dove senza l’auto e in mancanza di servizi pubblici si è isolati. L’aumento del costo della benzina incide sul modesto potere d’acquisto. Tipico della tecnocrazia, competente nel formulare piani, però in difficoltà quando deve tener conto delle reazioni che ignora degli esseri umani. 

Dopo la non esaltante rielezione a Presidente (il 38% dei francesi l’ha votato) e il sorprendente risultato personale di Mélanchon, che ha avuto il massiccio sostegno dell’immigrazione nord-africana e mussulmana, Macron dà un’ulteriore conferma della sua politica ondeggiante e non ancorata a convinzioni, nomina ministro per l’Educazione un riconosciuto intellettuale di ascendenza senegalese, noto per il suo estremismo e per partecipare a riunioni alle quali i bianchi non sono ammessi. Può impressionare i bo-bo (bourgeois-bohème) ma lascia indifferenti i votanti di Mélanchon, che considerano tali gesti segni di debolezza.

Il presente insuccesso di Macron, la formazione politica del quale con alleati è scesa da 308 a 245 deputati, perdendo la maggioranza assoluta, è il fallimento del tentativo di conduzione tecnocratica del Paese.
Tale soluzione non è nuova e già nella Storia è conosciuta con il nome di epistocrazia: il reggimento dei migliori. Le recenti elezioni francesi hanno segnato un punto a favore della democrazia e dell’importanza dei partiti (anche se con i socialisti pressoché annullati e i litigiosi gaullisti, oggi LR, malmessi) Auguriamoci che possano riprendersi e riassumere la loro funzione arteriale in una società certo difficile, frammentata ed insicura. Però per farlo occorre capacità progettuale, non bastano ondivaghi imbonimenti.

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