Questa è un’intervista di straordinario interesse, che dovrebbe essere letta e riletta, meditata e rimeditata. Sono onorato che Franco Zambelloni, docente e filosofo di gran rinomanza, l’abbia concessa a Ticinolive.

La sua critica è garbata nei modi, ma estremamente precisa e abbastanza severa. Se avessi un’unica parola a disposizione direi: Zambelloni critica la scuola facile. Dove facile significa, in primis, che non osa pretendere il massimo impegno dagli alunni e non osa valutarli, per paura di “discriminare i deboli”.

Un’intervista di così alto livello dovrebbe ricevere dal DECS – che dispone di collaboratori assai competenti – una risposta adeguata. Mi spingo sino ad affermare che il DECS ne avrebbe un grave danno, se non la desse.

Le mie personali opinioni sono molto simili a quelle del mio illustre collega (ma non penso di dover intervistare me stesso). Ho firmato il Referendum ma mantengo il portale APERTO. Ho ospitato tre personalità politiche favorevoli alla sperimentazione: il ministro Bertoli e gli onorevoli Polli e Franscella. Ne ospiterò, se ci saranno, altre.

Che consiglio offro al folto e combattivo Comitato referendista? Ovviamente, di raccogliere con grande impegno e celerità le firme. Ma anche: di far conoscere a tanti cittadini, cui democraticamente spetterà la decisione, il pensiero di Franco Zambelloni.

Un’intervista di Francesco De Maria.

A che punto siamo arrivati con la Civica?

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Francesco De Maria  Lei ha esaminato a fondo il progetto “La scuola che verrà”? Che cosa pensa dei suoi obiettivi e della sua imposte rimeditata. azione generale? Che cosa pensa delle modalità concretamente proposte?

Franco Zambelloni  I princípi e le intenzioni del progetto sono senz’altro condivisibili. Vi si parla ad es. (alla p.4 del documento, nell’edizione del 2016) della volontà «di accompagnare bambini e ragazzi là dove le loro qualità personali permettono loro di arrivare, lungo un cammino in cui l’impegno degli allievi e la professionalità dei docenti si incontrano, facendo fiorire i giovani più capaci e dando comunque un bagaglio sufficientemente solido a quelli che fanno più fatica.». Questa dichiarazione d’intenti non può che essere condivisa: vi si dice appunto quello che la scuola deve tentare di fare.

I dubbi sorgono sulle strategie didattiche, sulle modalità adottate per perseguire gli scopi indicati e – soprattutto – sulla mancanza di realismo della soluzione finale. Ad es.: nel testo che ho citato si parla dell’impegno degli allievi; realisticamente, occorre ammettere che qualche volta questo impegno non c’è, perché ci sono anche ragazzi che non hanno alcuna voglia di impegnarsi a studiare. Ora che La scuola che verrà sta per abolire ogni sanzione in mancanza di un impegno serio e faticoso (non più note d’insufficienza, non più bocciature né ripetizioni di classe, proscioglimento dalla scuola dell’obbligo garantito a tutti), immagino che il numero degli allievi fannulloni crescerà considerevolmente.

Dunque, al di là delle buone intenzioni e delle buone dichiarazioni d’intenti, a me pare che una scuola così progettata potrà anche avere effetti diseducativi

La prima parte della “vicenda politica”, dopo un lungo e combattuto iter commissionale, si è conclusa con un chiaro voto parlamentare in favore della sperimentazione. La seconda parte… è il referendum. E dopo il voto che cosa accadrà?

Dipenderà, ovviamente, dall’esito dell’eventuale referendum. Se i cittadini decideranno che la nuova scuola che vogliono è proprio questa, il progetto andrà avanti. Altrimenti si procederà ad ulteriori ritocchi per rendere il progetto meno indigesto agli occhi dell’elettorato.

A suo avviso gli oppositori hanno scelto la via giusta? Lei sarebbe disposto a firmare il referendum?

Sì. Il motivo fondamentale è questo: Il Gran Consiglio decide di avviare la sperimentazione senza prima avere chiarito come avverrà. Non si sa a chi verrà affidata: al CIRSE della SUPSI (scelto dal DECS per la verifica della sperimentazione)? Ma si sa che per statuto federale la SUPSI deve finanziarsi anche con mandati di ricerca, e per il settore scolastico tali mandati (e i relativi finanziamenti) provengono prevalentemente dal Cantone. Dunque, è pensabile che chi dovrà redigere il rapporto conclusivo voglia scontentare il suo principale committente?

In secondo luogo: il CIRSE fa parte del DFA; e nel CIRSE e nel DFA figurano appunto molti degli esperti e ricercatori che hanno elaborato il progetto La scuola che verrà. È immaginabile che chi partorisce un progetto arrivi poi a dire che non funziona? Stento a immaginarlo. La previsione sulla quale sarei disposto a scommettere è questa: la sperimentazione darà risultati senz’altro positivi; qualcosa però potrebbe essere ulteriormente migliorato, e gli esperti suggeriranno come (dopo studi approfonditi e adeguatamente finanziati); certo, anche i miglioramenti che verranno suggeriti comporteranno un ulteriore aumento dei costi – ma ne vale comunque la pena. Queste saranno la conclusioni, che si possono già trarre senza bisogno di procedere a una verifica.

Ancora. Una sperimentazione non s’improvvisa. Chiunque s’intenda anche solo un poco di sperimentazioni scolastiche sa che ci sono alcuni parametri che vanno definiti con chiarezza, affinché i rilevamenti successivi abbiano valore d’oggettività. Dunque:

  1. a) le classi in cui avverrà la sperimentazione e quelle di confronto che seguiranno l’iter attuale devono essere omogenee: ossia, devono avere lo stesso numero di allievi, e tali allievi in ogni classe devono avere percentuali identiche quanto al livello di capacità e competenze. Dunque, le classi per la verifica sperimentale vanno scelte in anticipo dopo esami accurati, che verifichino i livelli delle competenze acquisite sinora per confrontarle poi con quelle che verranno acquisite successivamente nel corso degli anni di sperimentazione;
  2. b) anche i docenti delle classi coinvolte nella sperimentazione devono essere omogenei tra loro, per capacità didattiche, impegno professionale, preparazione culturale. Perché – come giustamente diceva il dr. Berger (“Corriere del Ticino”, 26 marzo 2015) – «la qualità di una scuola dipende in gran parte dalle qualità dei suoi insegnanti»: dunque, se una classe sperimentale ha bravi docenti e quella di confronto ha docenti meno bravi (o viceversa), i rilevamenti non possono essere oggettivamente comparabili;
  3. c) ancora: perché non affidare una classe sperimentale agli esperti e ricercatori che hanno escogitato il progetto? Chi, meglio di loro, saprebbe applicare la differenziazione didattica, i laboratori, gli ateliers, le settimane/giornate progetto, la griglia oraria a blocchi ecc.? Chi, se non chi ha teorizzato queste innovazioni? Naturalmente, si dovrebbe garantire agli esperti – divenuti temporaneamente docenti – lo stesso stipendio del quale godono attualmente, non certo quello di normali insegnanti di SE o di Scuola Media. A queste condizioni, dovrebbero accettare con entusiasmo di realizzare ciò che loro stessi hanno inventato;
  4. d) infine, la progettazione dei rilevamenti va programmata accuratamente in anticipo, prevedendo prove di verifica comuni sulle competenze da misurare, visite e rilevamenti periodici (anche non preannunciati) da parte di chi conduce la valutazione, una vigilanza costante e così via.

Tutto questo richiede tempo, organizzazione precisa, idee chiare, procedimenti rigorosi: tutte cose che non mi risulta siano date per una sperimentazione che dovrebbe partire tra cinque mesi.

Pretendere che sia il popolo a pronunciarsi… è populismo?

In democrazia, specie se diretta, il popolo è sovrano: dunque, lasciare che sia il popolo a decidere è democrazia, non populismo. Ma si sa: quando un referendum non va giù a chi sostiene un progetto di legge, allora lo si chiama “populismo”; per chi invece lo propone è “democrazia”.

A suo avviso esiste un’opposizione preconcetta al progetto di Bertoli? E l’accusa di “scuola socialista” è fondata?

Come dicevo molti princípi affermati e ribaditi a non finire nel documento sono condivisibili e in sé validissimi, indipendentemente da qualsiasi impostazione ideologica. Chi non vorrebbe che la scuola pubblica facesse «fiorire ogni talento fino al massimo delle capacità individuali» ? È appunto questo che la scuola deve tentare di fare, e non in nome di un’ideologia, ma del suo compito istituzionale. Dunque, i princípi sono validi.

L’ideologia emerge, invece, nell’intransigenza di fondo della soluzione pratica. La scuola ha il dovere di tentare di ottenere il massimo da ogni allievo: a volte ci riesce, a volte no. Ebbene, pretendere che ci sia riuscita comunque, anche con chi ne esce semianalfabeta e senza le competenze minime che dovrebbero essere richieste – questa sì è una fissazione ideologica, un dogmatismo intransigente. Abolire ogni forma di selezione scolastica, garantire a tutti automaticamente – indipendentemente dai risultati, dall’impegno, dalle capacità – lo stesso “certificato di proscioglimento”, ossia un attestato di compimento degli studi: questa non è più “equità” né “inclusione”: è un egualitarismo che non trova altra giustificazione se non nell’ideologia. Ma non parlerei, al riguardo, di una “scuola socialista”, per lo meno se ripenso alle origini del socialismo. Il motto marxiano per la società comunista era: “A ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue capacità”. Non mi pare che il livellamento permissivo auspicato dalla Scuola che verrà rispetti pienamente la massima marxiana, che implica anche dei doveri, non solo dei diritti.

All’inizio PLR e PPD erano contrari, poi si sono fatti convincere (se non altro alla sperimentazione). Quanto valgono le concessioni che hanno strappato al DECS ?

Non posso saperlo. Però faccio una curiosa constatazione. Negli ultimi tempi si sono verificate alcune coincidenze. Vediamole.

– novembre 2017: nell’accordo raggiunto con la Curia a proposito dell’insegnamento di Storia delle religioni (dopo parecchi anni di dissensi e disaccordi), il Consigliere Bertoli annuncia che ad insegnare la nuova materia saranno ammessi anche i laureati in teologia, scienze religiose e scienze della religione;

– marzo 2018: il Consiglio di Stato licenzia il messaggio sulla modifica della Legge sulla scuola. La modifica consiste nel rendere obbligatorio per tutti in quarta media l’insegnamento di Storia delle religioni.

– marzo 2018: in Gran Consiglio il PPD – che in gennaio ancora titubava – appoggia il credito per la sperimentazione del progetto del DECS;

– il prossimo 25 aprile l’USI presenterà un progetto di ampliamento dell’ateneo e del polo universitaro della Svizzera italiana. Il progetto prevede l’integrazione nell’USI della Facoltà di Teologia.

C’è un nesso fra tutti questi eventi ravvicinati? Per saperlo bisognerebbe poter scrutare dietro le quinte, e a me non è dato; però un nesso è pur sempre possibile. Quanto al PLR, non escluderei che la sua adesione al progetto sia il risultato di qualche scambio reciproco: il do ut des è ormai una strategia di compromesso che regola gran parte del meccanismo legislativo.

Se consideriamo i 27 nomi che appaiono nella composizione del Comitato di referendum, osserviamo una connotazione politica molto netta. È una debolezza o una forza? (Io personalmente, le confesso che – favorevole al referendum – avrei preferito un Comitato meno “granitico”).

Sarebbe stato auspicabile, certo: la questione scolastica – e, di conseguenza, il futuro del Paese – non può stare a cuore ad un solo indirizzo politico. Ma se i socialisti (dopo tante riserve anche da parte loro), i liberali e i popolari democratici (dopo tante critiche e opposizioni) si allineano adesso in un fronte comune a difesa del progetto, è già una fortuna che qualche dissidente voglia interpellare direttamente il popolo.

Se le chiedessi di farmi un bilancio di 40 anni di scuola media, che cosa mi direbbe?

La scuola media è nata da aspirazioni simili a quelle che sfociano ora nella Scuola che verrà: sconfiggere le diseguaglianze, eliminare le discriminazioni sociali, garantire a tutti un’analoga istruzione di base. In base a questi princípi si è voluta una scuola media unica – che però, inizialmente, non era assolutamente unica, perché a quel tempo ci si rendeva ancora conto che certe differenze di capacità o d’impegno non possono essere eliminate, anche se bisogna cercare di ridurle. Dunque, la scuola media iniziale introduceva un ragionevole compromesso: nel secondo biennio gli allievi della scuola media sono stati suddivisi in ‘sezioni A’ (per gli allievi più preparati) e ‘sezioni B’ (per gli allievi più deboli); le “sezioni” sono poi state sostituite dai livelli 1 e 2 in tre discipline (matematica, tedesco e francese); successivamente, anche i livelli sono stati sostituiti dai corsi A e B per matematica e tedesco. Tutti questi cambiamenti successivi – che ora dovrebbero essere soppiantati con l’abolizione completa di ogni forma di differenziazione strutturale – mostrano, a mio avviso, che gli obiettivi che si volevano raggiungere (inclusione compresa) non sono stati adeguatamente raggiunti: ma, invece di concluderne che forse gli obiettivi erano irrealistici (e dunque destinati al fallimento, o ad un successo solo parziale), si decide ora di avviare una riforma che simulerà un’inclusione, probabilmente senza realizzarla veramente.

Oggi un mutamento (da definire) è auspicabile? Di più, necessario?

I mutamenti nella scuola sono periodicamente necessari, in corrispondenza dei mutamenti socio-ambientali. La tecnologia, specie quella informatica, sta cambiando radicalmente il modo di comunicare e anche quello di vivere: i giovani sono i più esposti all’influenza di questo nuovo ambiente. La scuola – sia per la didattica, sia per la pedagogia – non può non tenerne conto. Ma ogni adeguamento va progettato e deciso in base al rispetto delle diversità individuali degli allievi, dei cambiamenti sociali, delle esigenze prevedibili della società di domani, dell’evoluzione sociale ed economica della popolazione e del mondo del lavoro. Tutti questi fattori vanno presi in considerazione facendoli interagire; considerarne uno solo mi sembra insufficiente.

Quale influsso potrebbe avere La scuola che verrà, se realizzata, sul Liceo?

Credo opportuno citare dati del passato. Quando dalla formazione ginnasiale si è passati a quella della scuola media unica, ci si poteva aspettare un sensibile incremento delle bocciature all’inizio degli studi liceali: e così è stato, infatti, in certa misura. Ma poi i dati sono cambiati: al liceo di Lugano 1, nel 1987/88 solo il 27% di chi giungeva dalle medie con una bocciatura riusciva promosso al termine della prima liceale. Poi, nel giro di dieci anni, la percentuale di promozioni nella stessa categoria di allievi è salita al 62%!

Naturalmente, sono possibili diverse interpretazioni. Una, sulla quale credo si debba riflettere, è questa: una percentuale troppo alta di insuccessi scolastici liceali potrebbe far pensare a una severità e a pretese eccessive, specie considerando che il livello di competenze degli allievi usciti dalla scuola media non può che essere inferiore a quello dei ginnasi scomparsi. E allora, a poco a poco, spontaneamente i docenti del liceo rivedono i loro criteri di valutazione, abbassano i requisiti richiesti per la sufficienza così da adeguarli alla preparazione più modesta degli studenti che approdano al liceo. Così, passo per passo, ad ogni grado scolastico la preparazione risulta sempre più bassa.

La parola chiave del progetto sembra essere scuola “inclusiva”. Come legge questa parola, che cosa significa per lei?

Le parole a volte servono a intendersi, altre volte a fraintendersi. Dipende dal valore che si dà loro: ogni sostantivo è una universalizzazione che funziona a certi livelli, ma che diviene ingannevole se la si assolutizza. Così è anche per la parola “inclusione”: se la intendiamo nel senso che ad ogni allievo va riconosciuta uguale dignità e uguale diritto all’istruzione, ciò significa che la scuola deve tentare di non escludere nessun giovane dall’istruzione alla quale ha diritto; dunque la scuola tenterà di colmare eventuali deficit intellettivi, linguistici, culturali, nell’intento di portare lo studente ad un livello di competenze e di educazione morale che gli permetta di essere poi incluso adeguatamente nel mondo del lavoro e nella società adulta. Ma se il tentativo della scuola non raggiunge il suo obiettivo, e si dichiara comunque che l’obiettivo è raggiunto, allora la parola inclusione assume un valore assoluto che non corrisponde alla verità oggettiva; l’inclusione scolastica rimane allora puramente formale e comporterà poi un’esclusione di fatto, almeno parziale, dalla società e dal lavoro.

Esclusiva di Ticinolive