Si chiamava Mohsen Shakarim il 23enne iraniano giustiziato attraverso l’impiccagione, per le proteste in Iran, contro l’obbligo del velo e la morte di Mahsa Amini, arrestata a settembre per aver indossato male il velo.

Il suo compagno di cella, Bob Aghebati, ora liberato, lo ricorda così: “Vorrei che non avessi portato una bottiglia di soda quando sei tornato dall’interrogatorio. Vorrei che non mi avessi raccontato di tutti i tipi di caffè e di come prepararli. Vorrei che fossi stato ancora vivo quando ho fatto il caffè stamattina. Vorrei non aver letto questa notizia. Vorrei non stare così male. Vorrei non odiarmi così tanto. Vorrei non odiarmi così tanto. Vorrei…”

La condanna a morte del giovane, giustiziato dopo una lunga detenzione nel carcere di Evin, è stata eseguita questa mattina in Iran, per impiccagione.

Il ragazzo sarebbe stato fermato nei primi giorni dei disordini, il 25 settembre, per aver bloccato il traffico e colpito – apparentemente con un machete – una guardia della milizia Basij, ferendolo ad una spalla.

Arrestato, almeno secondo la versione ufficiale, il giovane avrebbe confessato di essere stato spinto a impegnarsi nelle proteste da un amico, che gli avrebbe anche offerto una ricompensa se avesse picchiato un poliziotto.

Secondo i giudici “Shekari eseguì il suggerimento, utilizzando quell’arma “con l’intenzione di uccidere, causare terrore e mettere a repentaglio l’ordine e la sicurezza della società”.

Secondo la giurisdizione iraniana, il crimine risponde del reato di moharebeh (“guerra contro Dio”) a norma di sharia, e secondo la legge islamica applicata in Iran, è prevista la pena di morte.

Il suo avvocato aveva chiesto e ottenuto il riesame del caso in appello, ma non sarebbe stato ammesso a tale secondo grado del processo.

Così, la sentenza capitale era stata confermata ed è stata eseguita oggi, senza che la famiglia potesse prima rivederlo.