La scoperta di Sutton Hoo nel 1939 sulla sponda orientale del fiume Deben, al di là della baia di Woodbridge, cambiò la storia dell’Inghilterra. Fu infatti rinvenuto, in un sito funerario, un tesoro risalente non, come si credeva inizialmente, all’epoca vichinga, bensì molto più antico, ovvero risalente ai primi sassoni.

Il regista Simon Stone racconta la scoperta con raffinata mestizia. I colori del panorama sono tenui, dalla terra color sabbia dell’Anglia, al grigio lucente del gelido fiume Deben, all’erba, incolta e mietuta dal vento, che ondeggia dal verde sbiadito al nocciola.

I protagonisti, l’archeologo interpretato da Ralph Fiennes, e la sua committente, una colta vedova interpretata da Carrey Mulligan, anelano entrambi a qualcosa di oltre: ma sui loro visi scarni, provati dalla guerra (incombe il secondo conflitto mondiale), riluce uno sguardo di speranza.

Il film inizia quando la vedova Edith Pretty, appassionata di archeologia, commissiona a Basil Brown, esperto antichista, gli scavi nella sua proprietà.

Il terreno, in cui domina il giallo più tenue, si presenta coperto da plurimi tumoli, funerari, già profanati in passato da ladri di tombe.  Edth consiglia a Basil di scavare l’unico tumulo di forma ovale anziché tonda e la scoperta si rivela fruttuosa: dalla forma ovale emerge nientemeno che una nave sepolcrale.

(Attenzione: da qui in poi iniziano gli spoiler). La scoperta attira immediatamente gli archeologi più qualificati ma che persistono nell’errore di considerare la nave sepolcrale – lunga 27 metri, con oltre venti posti per i vogatori – coeva all’epoca vichinga mentre Basil Brown, il vero autore della scoperta, cerca di dimostrare che, in realtà, la nave è anglosassone.

La scoperta rivela all’Inghilterra una parte del passato appartenente ai secoli bui, quel lasso di tempo, invero, tra la dipartita dei Romani dalla Britannia e l’avvento dei Vichinghi nel VIII secolo. Il regista insiste sullo scavo, dal quale emerge, in realtà, solo lo scheletro della nave impresso nel terreno (dopo più di mille anni, del legno, ovviamente, non resta più niente), ma alle tecniche archeologiche è intrecciata un’appassionante quanto tenue storia familiare.

Edith è infatti una giovane vedova con un bambino, Robert, molto legato all’archeologo Brown. Edith scopre però di essere gravemente malata di cuore, e di aver ancora poco da vivere.

Sapientemente, la macchina da presa indugia sulle visite di Edith alla sepoltura del marito, immediatamente seguite da quelle, assieme a Brown, al sepolcro anglosassone. Corpi morti nella terra, corpi vivi dentro la terra. Sino a quando Brown viene sepolto da una caduta di terriccio e sviene. Salvato da Edith, tra i due inizia un’intesa, basata unicamente sull’affinità di spirito.

Tra gli addetti allo scavo al seguito del rude e autoritario Charles Phillips, ci sono signore e signora Piggott, ma la giovane archeologa scopre di non essere amata – non con passione – dal proprio sposo, così, con fine reticenza, si abbandona al proprio cuore, scoprendo nel fratello di Edith il vero amore.

La storia d’amore dell’archeologa Peggy Piggot, raccontata nel film Sotto la vera Peggy Piggot

E come i due rappresentano la vita che va avanti, così Edith, ormai malata, rappresenta una fine, sì, che tuttavia non è la fine di tutto: il piccolo Robert, che s dispera per non aver “protetto” la mamma dalle insidie del destino, trova una guida nell’archeologo e coniuga la propria passione dell’astronomia con l’archeologia pronuncia, per quanto si addica a un bambino di neanche dieci anni, un commovente monologo che interseca fiaba e storia, fantascienza e archeologia.

Edith pensa infatti al marito ormai sottoterra, e scopre la tomba di un re. Così il figlio Robert vede in lei una regina che, sulla nave “delle stelle” (dalla terra al cielo) ritornerà al proprio re.

Il padre morto di Robert (la cui figura maschile assente è di gran lunga compensata da quella del giovane zio e soprattutto dall’archeologo Brown) si coniuga con la figura altrettanto morta e assente del misterioso re del sepolcro. E, per entrambi, la morte non è una realtà immutabile, poiché è come se entrambi avessero lasciato dietro di sé qualcosa di inestimabile valore, come un gioiello dimenticato prima di partire per il viaggio.

E non è tutto, perché mentre sulla vita incombe la morte, sulla pace incombe la guerra. Ininterrottamente, infatti, la radio trasmette l’ultimatum inglese alla Germania nazista dopo l’occupazione della Polonia con la consequenziale dichiarazione di stato di guerra.

Dalla morte, tuttavia, risorge la vita, in una chiave tutt’altro che religiosa, bensì concretissima: dai sepolcri, infatti, Basil Brown “ridà vita” a popoli vissuti migliaia id anni fa, donando così sapere al futuro sulle proprie origini. Come un circolo continuo, sul quale la macchina da presa fa battere incessantemente la pioggia, ed alla terra friabile segue il fango melmoso, la narrazione continua lenta ma mai monotona, naturalissima, istruttiva ma non pedante.

In un’Inghilterra in cui incombe la guerra, la tecnologia sembra lasciare il passo all’archeologia, la modernità all’antichità: come nella scena, emblematica, in cui un pilota della Raf, cade morto nel fiume, a dimostrare la fugacità dell’esistenza e il terrore della modernità.

Assente, quasi totalmente, dalla narrazione di Stone, la religione. Non c’è fede, non c’è preghiera, non apparentemente, almeno. Come dice Edith, prorompendo in lacrime “noi moriamo e ci decomponiamo, e di noi non rimane che niente”.

Parole alle quali prontamente Brown risponde “di noi resta l’essenza” che, anche a distanza di migliaia di anni, può sopravvivere.