2018
“Ho fatto il giudice, il comandante della polizia, il sindaco, il colonnello…” (vedere il testo)
Mauro Dell’Ambrogio, Dr. iur. all’Università di Zurigo, già Segretario di Stato per l’educazione e la ricerca, dal 2013 è Segretario di Stato per la formazione, la ricerca e l’innovazione. Gli siamo grati per averci concesso questa intervista.
Ticinolive Cosa ha caratterizzato la sua attività a Berna? Di cosa si è occupato in particolare?
Mauro dell’Ambrogio Mi incombe, per alcuni mesi ancora, di preparare e mettere in atto le decisioni di Consiglio Federale e Parlamento in materia di formazione, ricerca e innovazione; negli aspetti sia nazionali che internazionali. Tre esempi: distribuire sette miliardi ogni anno ai Politecnici federali, al Fondo nazionale per la ricerca scientifica, ai cantoni per le loro scuole universitarie e professionali e a dozzine di altre istituzioni, in modo da assicurare efficienza e qualità. Rappresentare la Svizzera in negoziati e organizzazioni quali l’Agenzia spaziale europea, della quale per tre anni ho presieduto il consiglio dei ministri. Dirigere la fusione tra l’ufficio federale per l’educazione e la scienza e quello per la formazione professionale e la tecnologia: la maggiore riorganizzazione dell’amministrazione federale nell’ultimo decennio. In Svizzera si rispetta l’autonomia di regioni, istituzioni, organizzazioni professionali, dosando concorrenze e collaborazioni. All’estero si difendono gli interessi nazionali, il riconoscimento dei nostri diplomi, l’accesso a programmi e strumenti per mantenere competitive le nostre università e aziende. Non lo faccio evidentemente da solo, ma con alcune centinaia di collaboratori.
Che tipo di persone ha conosciuto e in quale clima si è trovato a lavorare?
Ho interagito con colleghi di altri settori, con scienziati, diplomatici, politici: svizzeri e di altri paesi; avvantaggiato dalla buona padronanza attiva di quattro lingue e passiva di un paio d’altre. Ho potuto far crescere e conservare collaboratori eccellenti e ho imparato tantissimo.
Qual è il singolo messaggio o elemento che dalla Capitale ritiene dovrebbe giungere in Ticino? In termini, ad esempio, di metodo di lavoro, organizzazione, o altro.
Ciascuna parte della Svizzera presenta originalità dal punto di vista economico, politico o sociale. A Berna è normale invitare a pranzo a casa il compagno di scuola del figlio, se i suoi genitori sono assenti. E talune rigidità teutoniche sul lavoro sono arricchite dalla fantasia latina. Rispettare la diversità e imparare da essa è il principale messaggio, in entrambe le direzioni.
Tutti la conoscono in qualità di Segretario di Stato per la formazione, la ricerca e l’innovazione; tuttavia, nel corso della sua carriera ha esercitato numerose attività professionali, ce ne può parlare?
Ho fatto il giudice, il comandante della polizia, il sindaco, il capoprogetto per la fondazione di un’università e il rettore di un’altra, il colonnello nell’esercito, il direttore di un gruppo di cliniche private, il parlamentare, l’amministratore di aziende e fondazioni, spesso contemporaneamente.
La Svizzera dovrebbe a suo parere puntare sulla formazione professionale piuttosto che su quella universitaria? In che senso?
Le due vie di formazione sono altrettanto importanti, e su scala nazionale in buon equilibrio tra loro. Squilibri, come ve ne sono su scala regionale, mettono a rischio la qualità di entrambe. Ad esempio in Ticino, dove il numero di studenti in scuole a tempo pieno è elevato rispetto a quello degli apprendisti.
C’è necessariamente una contrapposizione tra questi due modelli di formazione, oppure si possono creare delle sinergie? Ad esempio, la formazione universitaria non potrebbe/dovrebbe diventare più “applicata”?
Non c’è contrapposizione ma complementarità tra le due vie di formazione. Un’attrattiva formazione professionale, che dà accesso a carriere e ad opportunità imprenditoriali, evita alle nostre università di diventare di massa e di perdere così qualità, come accade in altri paesi. “Applicata” è da noi la formazione nelle scuole universitarie professionali, le SUP, siccome frequentate da chi già ha imparato un mestiere. I tentativi, come si faceva in passato e come ancora si vede all’estero, di trasformare in tre anni dei liceali in professionisti pronti per il mercato del lavoro, per buona parte delle professioni, sempre più complesse, oggi non funzionano più.
Come valuta la competitività elvetica nel lungo periodo? La Svizzera sta reagendo adeguatamente ai mutamenti indotti dalla digitalizzazione? Cosa si dovrebbe migliorare?
Nel lungo periodo tutto è possibile, ma sono ottimista, visto che da tempo siamo tra i paesi di maggiore successo economico, pur poveri di materie prime. Dalla chimica alla farmaceutica alle bioingegnerie, dalle macchine alla robotica, la nostra industria si è costantemente adattata alle trasformazioni, e così nei servizi. Perché non ci siamo protetti dalla concorrenza internazionale. Molto dipende, più che dai nostri sforzi, da quelli dei concorrenti, che non dormono, particolarmente in Asia. A ben vedere, più che nel migliorare, la sfida maggiore consiste nel non commettere errori comodi: come quello di delegare alle scuole soltanto, e non anche alle aziende, il compito di formare, o di parcheggiare i giovani in studi perenni.
Esclusiva di Ticinolive