Come ottenere successo grazie alla poesia e alla letteratura: intervista a Fabiano Alborghetti, presidente della Casa della Letteratura per la Svizzera Italiana

Rendere l’amore per la poesia una professione è possibile? Ne parliamo col poeta Fabiano Alborghetti per dimostrare ai giovani studenti iscritti alle facoltà di studi umanistici che gli sbocchi professionali e il successo, anche in questo ambito, sono ambizioni realizzabili.

Il poeta è, etimologicamente, colui che crea, che fa. Fabiano Alborghetti, presidente della Casa della Letteratura per la Svizzera italiana, nato a Milano nel 1970, è un alchimista della poesia che trasforma l’inchiostro dei versi sulle pagine dei libri in prestigiosi momenti di condivisione sociale ed è riuscito a fare dell’amore per la letteratura una professione. In ambito letterario la sua missione di organizzatore di eventi culturali presso Villa Saroli, a Lugano è importantissima, giacché troppo spesso accade che la poesia rimanga incarcerata sulla carta, senza trovare nessuno in grado di liberarla rendendola fruibile al pubblico. Poeta e vincitore del Premio Svizzero di Letteratura del 2018, Alborghetti ha alle spalle molte pubblicazioni, dai romanzi in versi alle poesie. Trasmutazione del piombo in oro, trasmutazione dell’inchiostro in vita: un libro di Alborghetti è stato trasformato per intero in un radiodramma dalla RSI e grazie a lui molti altri poeti e scrittori hanno potuto trasmutare i loro pensieri in opere pubblicate su libri e riviste. In questa intervista parleremo del tema della divulgazione della più antica e sacra delle arti, la poesia, attraverso i nuovi media e delle strategie che un giovane poeta deve attuare per ottenere successo.

Gentile Fabiano Alborghetti, il suo impegno a livello internazionale per la divulgazione della poesia è veramente notevole. Con che istituzioni di altri paesi ha avuto a che fare per la promozione di questa arte?

Sono molte, alcune di carattere commerciale come case editrici o riviste quando si tratta di promuovere autori della Svizzera italiana verso altre lingue ma anche prettamente culturale come festival o altre Case della Letteratura dentro i nostri confini nazionali. C’è poi una serie di contatti con festival all’estero per portare gli scrittori Svizzeri a essere conosciuti ed infine gli enti governativi -o Ministeri della Cultura- di altre nazioni quando si è trattato di far tradurre autori stranieri verso l’Italiano. In tutti i casi, un percorso non semplice né improvvisato. Certamente vanno calibrate le comunicazioni e questo a seconda dell’intento: c’è quello puramente monetario (la produzione di un libro), l’aprire un mercato prima non esistente (sia editoriale che di “intrattenimento” quali i festival), il rafforzare una consapevolezza (talvolta si ignora completamente la letteratura della Svizzera italiana) o infine rimarcare l’attenzione verso le nuove pubblicazioni perché il flusso editoriale generale è così affollato che la qualità può non essere notata, specie se proviene da un’altra nazione (penso ai rapporti tra Svizzera italiana e la vicina Italia). Con ogni entità c’è una specifica lingua, un modus operandi, e sono elementi tanto importanti quanto lo è il soggetto della discussione.

Grazie al suo impegno presso Villa Saroli hanno luogo molti eventi legati alla poesia e alla letteratura. Recentemente, giovedì 21 aprile 2022, in occasione della rassegna Spaziobianco, ha dato la possibilità a due moderatori molto giovani, Mattia Bettoni, classe 1995 e Jordi Valentini, nato nel 1994, di condividere il loro studio delle opere in pubblico (in questo caso, moderando una poeta, comunque giovane secondo gli standard). Lei cosa ne pensa dei giovani scrittori e della loro utilità per la società?

I giovani scrittori sono essenziali e spesso innovatori, a patto che ci sia della solidità in quanto scrivono, che sia poesia o prosa. Spesso però -e parlo per esperienza lavorando anche come consulente editoriale- la produzione è tanto sciatta quanto l’ego è alto. Ho letto e valutato manoscritti indecenti anche per l’uso dell’italiano (lavori che comunque trovano spazio grazie a edizioni a pagamento). Laddove invece il giovane scrittore compia un percorso soprattutto di confronto per maturare nella scrittura, i risultati possono essere validi. Potrà poi accadere che editorialmente gli sia affiancato un “editor” per affinare la scrittura o chiarire passi claudicanti ma se il manoscritto è buono, il risultato finale sarà ancora più solido. Lo sguardo nuovo, una scrittura fresca, avere una voce propria e non imitata, la capacità di essere cosciente delle regole della grande letteratura per sovvertirla con intenzione e competenza sono un arricchimento. I giovani scrittori hanno energia, coraggio, talvolta anche visione. Sono linfa per la società e potenzialmente la possono arricchire. Per farlo occorre però avere consapevolezza.

Descriva sé stesso da giovane, quando ha capito di essersi innamorato della scrittura le sue ambizioni e il suo primo libro scritto…

Bisogna affondare nel tempo e guardare molto a ritroso. Mi sono formato con altre discipline (pittura, fotografia) ma restando sempre un lettore onnivoro, insaziabile. Mi sono innamorato della lettura prima che della scrittura, delle voci, dei mondi possibili, delle frizioni che altri sapevano raccontare, delle salvezze. L’approdo allo scrivere è stato successivo, una “onda lunga” emersa dai percorsi formativi precedenti, forse persino casuale. Scrivevo senza ambizioni, inizialmente; scrivevo per capire. La consapevolezza del poter pubblicare è arrivata solo successivamente, e con molta distanza. Il primo libro è stato Verso Buda pubblicato nel 2004, anche se tecnicamente sarebbe il secondo (ma è uscito per primo). Avvenuta la prima pubblicazione l’ambizione è stata fare meglio, non ripetersi e soprattutto l’aspettare: avere una storia solida, trovare la voce più pertinente, il tema adeguato, soprattutto l’evitare di pubblicare cose delle quali non ero convinto. Ho imparato a guardare la mia scrittura da una certa distanza.

Secondo lei esiste una sorta di gap tecnologico che separa i giovani scrittori dal mondo della comunicazione? Cosa si potrebbe fare per rendere la poesia ticinese più “social” e quindi più facilmente fruibile anche dai ragazzi che normalmente non conoscono questo tema?

Più che un gap tecnologico, credo esiste un gap culturale. La promozione è ancora vista come sconveniente, troppo commerciale per l’altezza sacrale della letteratura. Pur sottolineandone la qualità, teniamo però a mente che per l’editore un libro è un prodotto, per il libraio una merce, per lo studioso uno strumento, per il lettore un bene. Che la letteratura, un libro, un passo di prosa o una poesia approdino sui social, non è “il grande male” proprio perché questi permettono una più generosa diffusione, ma tutto questo a patto di non limitarsi a frasette caramella. Il punto focale non è chiedersi se la poesia può rendersi più “social” quanto se il pubblico dei social desideri confrontarsi con qualcosa di più complesso di un pensierino. E in parallelo, quanto al “poeta social” sia bastante la vetrina mordi-e-fuggi dal facile “like” oppure un impegno maggiore. Non ho nulla contro i social, anzi: sono uno dei vettori forti per la diffusione di contenuti. Ma cosa vogliamo venga diffuso?

Ci parli di lei: è stato difficile rendere il suo amore per la letteratura e la scrittura una professione?

Premetto che la letteratura non paga tutti i conti. Mantengo un mestiere (e non in ambito letterario). La scrittura di soli libri, tranne rari casi (molto rari, e pertanto non fanno media) da sola non basta. Conosco eccellenti scrittori che all’attività editoriale devono obbligatoriamente affiancare altre professioni, anche se bene o male sono sempre nel medesimo ambito: docenza, scrittura per altri media quali la radio, o progetti teatrali, commesse per progetti culturali o musei… Io ho optato per una formula mista che miscela letteratura (o cultura) e il suo opposto. Un ottimo osservatorio antropologico. Credo che chi scrive debba restare immerso nel mondo per poterlo osservare “da dentro”. In tutti i casi sopra elencati, me compreso, il sacrificio e l’abnegazione sono comunque obbligatori.

Molti giovani che studiano lettere hanno paura di ritrovarsi disoccupati… quando è importante possedere, in aggiunta al talento letterario, la capacità di coltivare buone relazioni umane e avere una buona strategia di marketing per chi desidera avere successo in questo settore?

Senza talento, si può avere tutto il marketing del mondo ma il prodotto pubblicato resterà comunque debole. E non tutti i laureati in lettere saranno scrittori o poeti. Potranno essere giornalisti, operatori culturali, curatori, critici, docenti…
Vorrei però scindere con fermezza la questione su due assi ben distinti. Il primo è la buona scrittura: accadrà che il mercato editoriale sia generoso ed entusiasta oppure impietoso, distratto, indifferente e questo a prescindere dalla qualità dell’opera. Alla base c’è però un ottimo e duraturo libro e un autore capace, riconoscibile e del quale -da lettore- fidarsi (e complice del successo è anche il passaparola). Il secondo asse è quanto concerne marketing e mercato: bravi editori e bravi uffici stampa (o buoni agenti) permetteranno al libro una buona vita ed una visibilità. La qualità del libro qui è solo accessoria: vince chi ha più forze da mettere in campo (e soldi da investire).
La questione dell’autore capace di coltivare buone relazioni è un tema ulteriore che va scisso in due percorsi: le buone e sincere manifestazioni di stima (per la persona e/o l’opera, ma spesso coincidono) e la costruzione di un sistema di consorterie che trascendono la qualità dell’opera. Adoperarsi scientemente per costruire un sistema di “do-ut-des” è immorale, ma se è questo ciò al quale l’autore anela… Il successo editoriale è dato esclusivamente da un solo fattore: opere di qualità.

Agli occhi di alcuni poeti “disinteressati” può sembrare blasfemo parlare di poesia e capacità imprenditoriali, ma per poter emergere in campo letterario bisogna vincere dei concorsi, partecipare a rassegne poetiche, ricevere delle belle recensioni e pubblicare con case editrici importanti. Quali sono i suoi consigli per i giovani poeti che desiderano avere successo?

Mi ripeto ad nauseam: qualità dell’opera. È l’unica cosa che conta. Certamente vincere concorsi (seri), essere consapevoli dell’ambiente nel quale si opera e infine approdare a festival o grandi casi editrici è di grande aiuto, ma se quanto si pubblica è debole, a nulla vale agitarsi e sgomitare. Il consiglio è lavorare, leggere e confrontarsi; sollecitare le critiche e accoglierle per migliorarsi. Porsi domande. Ricominciare daccapo. Accade di rado: è più appagante essere l’idolo di amici e parenti e troneggiare al festival dell’asola e alla fiera del bottone. Le arti (non solo la scrittura) non sono discipline caritatevoli ma il tempo premia la qualità. Non ho un consiglio bensì un suggerimento dato dall’esperienza: piuttosto che cercare il successo, cercate di fare bene; e quando è stato fatto bene, spingersi a fare meglio. Costa molta fatica. È certamente più semplice avere un successo “di pronta beva”, facile, ma la facilità è fragile…

Il Ticino è una realtà piccola ma animata da molte case editrici. Con che editori ticinesi ha pubblicato i suoi ultimi libri? Lei è anche direttore della collana Poesia per Gabriele Cappelli editore…ci parli un po’ del panorama editoriale ticinese. Un ragazzo che desidera pubblicare il suo primo libro in versi, ad esempio, chi dovrebbe contattare?

Io ho suddiviso le mie pubblicazioni tra Italia e Ticino (non contiamo le traduzioni all’estero) e ogni editore è la giusta “casa” per il libro che è stato pubblicato. Registro dei fragili è uscito con Casagrande di Bellinzona, Barbarossa con Dino&Pulcino di Ligornetto mentre l’ultimo, Corpuscoli di Krause è appena uscito per Gabriele Capelli Editore per il quale curo appunto la collana di poesia (ma io non mi ci sono incluso: sono fuori collana per onestà morale). In generale posso dire che il Ticino ha un buon panorama editoriale: oltre ai sopracitati (editori storici e con fior di cataloghi), guardo a Dadò di Locarno senza il quale non avremmo delle grandi opere in traduzione e anche la scoperta di nuove voci, oppure al piccolo Alla Chiara Fonte di Viganello specializzato in poesia o ancora l’IET (Istituto Editoriale Ticinese), ma il panorama è davvero molto vasto e non è qui possibile elencare tutti gli editori che operano su territorio. Per Capelli si è varata la collana di poesia con una direzione precisa: autori in traduzione e deceduti; il primo titolo è stata la poeta candidata al Nobel Janet Frame (ai più conosciuta per il film di Jane Campion Un angelo alla mia tavola) seguita dal Nobel Seamus Heaney. Poi è arrivata la pandemia e abbiamo frenato. Siamo pronti a riprendere abbiamo due titoli in predicato sui quali stiamo lavorando.
Un esordiente lo indirizzerei verso Alla Chiara Fonte proprio per il suo pionieristico lavoro di “scouting” decennale e per l’assoluta serietà del giudizio oppure, perché no, a guardare anche all’estero…

Per le ultime domande ci spostiamo dalla poesia…al mondo della filosofia, in cui convergono etica e politica. Chi è Bruno, il protagonista del suo romanzo Maiser ? Perché, a suo parere, è importante parlare ancora oggi di questi temi e che sentimenti desidera veicolare?

Bruno, il protagonista di Maiser, è un uomo comune che nell’immediato dopoguerra lascia l’Italia in cerca di fortuna all’estero (come altre migliaia di connazionali). Approderà in Svizzera con l’idea di tornare dopo poco ma non tornerà mai più: la nascita dei figli, il lavoro, un luogo che pur restando alieno viene considerato ormai casa… sono molte le ragioni. Eppure la singola storia di un uomo comune è stata capace di diventare l’universalità della migrazione. Questo ho cercato di fare raccontandone la vita in un romanzo in versi che parte negli anni ’50 (con toccate e fughe nella Seconda Guerra Mondiale) per arrivare ai giorni nostri. È un confronto con la doppia storia, quella minuta e qualunque dei senza nome e quella con la “S” maiuscola che si studia nei libri; quest’ultima, ricordiamoci, diviene tale solo grazie a migliaia di Bruno che passo dopo passo hanno vissuto, costruito, transitato inermi nelle frizioni della società. È importante parlarne prima di tutto per non dimenticare: la storia è volenterosa nel sommesso e sistematico lavoro dell’oblio e parlare delle storture credo possa rivitalizzare la consapevolezza, forse anche evitare che qualcuno un giorno ripeta. Poi, lo sappiamo, la storia è molto poco vedente e così anche gli umani, ma la scrittura deve essere una forma di resistenza civile e di barometro della temperatura del tempo storico.

Che esperienze ed incontri personali l’hanno portata a scrivere L’opposta riva, pubblicato con Lieto Colle nel 2006, e di cosa parla?

Se per Maiser ho parlato dell’emigrazione italiana del dopoguerra, in L’opposta riva (libro del 2006 poi del 2013) parlo della migrazione che ininterrottamente popola le cronache sin dal 1991, quando alle coste italiane arrivò la prima nave dall’Albania: il più grande sbarco di migranti mai giunto in Italia con un’unica nave (dato del 2018 e mi sembra ancora attuale). Per scriverlo ho vissuto per tre anni con gli immigrati clandestini, gli illegali, i sans-papier. Ho vissuto con loro tra il 2001 ed il 2003, quotidianamente. In quei tre anni abbiamo condiviso pasti, i letti in dormitori o materassi gettati a terra in baracche o fabbriche dismesse. Assieme abbiamo fatto le code per essere scelti da un caporale per un impiego giornaliero in nero e assieme siamo stati spesso scartati. Assieme abbiamo accompagnato conoscenti per il rinnovo dei documenti e con loro abbiamo fatto la fila per notti intere e giorni senza fine. Assieme abbiamo fatto la spesa nei discount, viaggiato per la città, guardato partite di calcio alla televisione, festeggiato compleanni; abbiamo celebrato ricorrenze religiose o digiunato per onorarle. Abbiamo pianto le morti o ringraziato per aver ritrovato i vivi. Ho vissuto con loro spaesamento e rifiuto. Da quel lontano 1991, il mondo è stato testimone della guerra in Yugoslavia, poi guerra dopo guerra si è arrivati all’11 settembre 2001 con l’attentato alle Torri Gemelle di New York o alle “primavere arabe” dal 2010 e nel 2022 abbiamo profughi costretti a lasciare l’Ucraina. Passa il tempo e nulla cambia. Per questo quel libro fu scritto e resta attuale nonostante i decenni.

Poesia e filosofia possono anche essere definite medicina dell’anima e strumenti di “redenzione” e cura dell’essere umano. Ci parli delle sue esperienze coi carcerati e della sua collaborazione con la fondazione Sasso Corbaro per le Medical Humanities e di altri suoi progetti, come Parole che Curano avvenuto nel 2020, finalizzati a curare corpo e anima delle persone.

Coi detenuti ho operato per un certo periodo nel carcere di massima sicurezza di Opera, alle porte di Milano. Con loro si è usata la poesia come mezzo di trasposizione dell’emozione, quella sfera di sentimenti e fragilità che la vita carceraria non permette di esporre: è una vita di confronto brutale, di sopraffazione, di sfida e dalle molteplici difese, spesso violente. La poesia (approcciata per brevità, per sintesi, rispetto alla prosa che avrebbe dilatato i tempi) si è però rivelata un mezzo non solo pertinente ma particolarmente a fuoco per fare evolvere sguardo, linguaggio, esposizione del sé, comprensione del sé. Da qualche parte la redenzione deve cominciare e non può trovare terreno fertile se non si lavora quel terreno rendendolo adatto. Molti ci sono riusciti.

Il lavoro con le Medical Humanities, invece, è stato di tutt’altro genere, molto più letterario se vogliamo, mettendo in costante dialogo la letteratura con le pratiche di cura: l’intento è stato il poter dare al curante, colui che agisce per il nostro benessere, un mezzo ulteriore per affinare l’ascolto del paziente. Chi necessita di cure, spesso non è in grado di esporre con dovizia e con la necessaria precisioni i sintomi o la propria anamnesi. Affinare invece l’attenzione alla narrazione altrui, il mettersi in ascolto e “leggere” il non detto permette a chi espleta le azioni di cura una maggiore consapevolezza soprattutto del proprio interlocutore, del ricevente. La medicina è globalmente considerata come azione puramente farmacologica o di macchinari, eppure perché questa sia davvero efficace deve poter essere calibrata su ciò che il paziente ha davvero bisogno e dice. Le Medical Humanities, come disciplina, a questo tendono. Mettersi in comunicazione con l’altro.

La stessa direzione che è stata perseguita con il progetto Parole che curano voluto dalla Città di Lugano in collaborazione con la Fondazione IBSA ma con una sfumatura diversa: è stata una campagna di sensibilizzazione per accogliere i cittadini fuori dalle loro abitazioni grazie al potere emotivo delle parole. Aiutare la popolazione a proiettare lo sguardo oltre i muri delle case, nella natura, nelle strade che tornano a vivere, nel desiderio di condivisione (ricordiamoci che è stato un progetto varato in piena pandemia). Quelle parole di scrittori e poeti, stampate su larghi manifesti poi affissi per le strade cittadine hanno consentito una riflessione ulteriore proiettandola dentro di sé e contemporaneamente facendo capire che “l’altro” vive le medesime difficoltà. Quelle parole stampate, grazie alla loro intensità, hanno offerto per mesi messaggi di speranza e bellezzaaiutando le persone a guardare con fiducia al futuro, e a un futuro sociale.

Credo che letteratura debba servire proprio a questo: costruire raccogliendo le diversità; consolidare il senso del “noi”; e, infine, a sollevare domande e poi ancora domande. La letteratura non può dare risposte perché quelle le troverà ognuno attraversando la propria sensibilità, formazione culturale, permeabilità. Ma sollevare costantemente domande è ciò che ci porta a fare meglio oggi, costruendo un domani più solido e più consapevole. È vero, la lettura è un atto solitario; ma la vita che viviamo e condividiamo è plurale. “Noi” non è una parola astratta, ma quel composto di tanti “io” in rapporto con gli altri.

Intervista di Liliane Tami