“All’inizio c’erano tre persone infelici. Ora, invece, ce n’è soltanto una”. Una frase spietata, quella pronunciata dall’amante alla moglie. Costei, ormai ex moglie, è appena piombata in casa della “terza incomodo”, ovvero dall’amante, per avere un ultimo contatto con il marito che, invece, rifiuta, con la moglie, ogni parola. L’amante ha un nome angelico, si chiama Angela, ma per l’ex moglie Grace è un essere più inesistente che diabolico ed infatti pronuncia una frase che è l’esatto contrario del messaggio evangelico, cioè lasciare l’intera mandria per salvarne una soltanto.

Il film si chiama Hope Gap, ovvero il nome delle scogliere del Sussex, ma in italiano è stato tradotto con “Le cose che non ti ho detto” ed è, a sua volta, tratto da un’opera teatrale, intitolata – in inglese – La ritirata da Mosca. Autore – sia dell’opera teatrale che del film è William Nicholson.

Io non ho visto l’opera teatrale britannica, ma ho visto il film, un piccolo capolavoro di trasposizione teatrale, dal finale aperto, che, quindi, evita gli spoiler (ma non le interpretazioni). E, quindi, eccovi la mia. Innanzitutto penso che il titolo “La ritirata di Mosca” sia geniale, anche per il film, che tuttavia non è stato titolato così.

Il film si apre infatti con Edward (Bill Nighy) che, durante una sua lezione di storia, racconta, quasi ossessionato dalla crudeltà alla quale si può spingere l’uomo, come i soldati napoleonici lasciassero morire i feriti, per non doverli soccorrere, nei più svariati modi (spogliandoli o sbalzandoli dai carri, per lasciarli contorcersi di spasmi nella neve gelida). Dell’uomo, cinico e solitario, vediamo i soldatini napoleonici posati sulla scrivania.

Al contrario, sua moglie Grace (Annette Bening) è una passionale, sanguigna, ottimista e fervente cristiana. Quando Edward le rivela che, dopo ventinove anni, il loro matrimonio è finito, per la donna crolla il velo dell’ottimismo, davanti ad un mondo spietato, che non credeva potesse esistere.

A questo punto entra in scena il figlio 29enne Jamie (Josh O’ Connor, già Carlo III in The Crown), il quale nonostante la raggiunta indipendenza, non riesce a trovare l’anima gemella. La separazione tra i genitori – egli ama, e conosce entrambi – lo dilania.

Invano Grace supplica Edward di tornare da lei, invano Jamie cerca di far comprendere alla madre di lasciare andare il padre. Hope Gap è la muta tragedia borghese di un mondo spietato senza una goccia di sangue, che compara, in crudeltà, la spietatezza della ritirata di Russia.

Hope Gap – nome altrettanto convincente – è infatti il nome della scogliera sulla quale, bambino, Jamie veniva portato dai genitori, all’epoca felici. Ma è anche la scogliera dalla quale Grace vorrebbe saltare, per farla finita per sempre. E, forse, è quella da cui, alla fine, salta davvero, seguita, a distanza di qualche tempo, dal figlio, incapace di andare avanti senza la madre, di odiare il padre, di sopravvivere ad un amore tramutatosi in odio.

Encomiabili le citazioni di molti poeti, tra cui Dante Gabriel Rossetti che sì, oltre ad essere pittore Preraffaelita era anche pittore e sua moglie Elizabeth Siddal, forse tradita, si suicidò.

Notevole, inoltre, la colonna sonora, sulla quale compaiono due “Kyrie eleison”, “Cristo è risorto”, in due scene: quando Grace viene lasciata e quando esce, per l’ultima volta, dalla casa dell’amante (e del marito): un’incrollabile fiducia cristiana e metafisica, calpestata dalla spietatezza umana. E, d’altronde, la fiducia di Grace emerge sin da subito: con uno schiaffo ed un tavolo ribaltato, crede di risolvere il silenzio del marito, con un consiglio al figlio, la vita sentimentale di questi. Alla fine, però, restituisce ad Edward una cosa: i soldatini napoleonici, della cui violenza l’uomo sembrava pacatamente appassionato.

Troverete su varie recensioni che il finale del film sarebbe da intendersi come rassegnazione ad una nuova felicità e non al suicidio. Ma perché la voce fuori campo di Jamie conclude il film dicendo della madre “avrei voluto salvarti, ma posso solo onorarti” e del padre “sei l’uomo che diventerò, mio unico giudice” ed, infine, di entrambi i genitori “perdonatemi, e lasciatemi andare”?

Hope Gap non è un inno al suicidio, ma con gentilezza e poeticità porta all’attenzione un dramma quantomai comune e borghese: l’indifferenza, alle sofferenze degli altri e la spietata crudeltà contemporanea dell’animo umano.