Con il passare degli anni e con lo scorrere della Storia mutano, cambiano, si adattano anche i costumi, le abitudini, gli atteggiamenti della società. In alcuni casi sono utili progressi, in altri si impongono delle mode che talvolta i conservatori come me trovano fatue.
Recentemente si sta diffondendo in Svizzera l’abitudine del lavoro parziale, cioè meno giorni e ore al lavoro e più tempo libero. Possibile certo in un Paese come la Svizzera che nonostante tutti i pregiudizi ideologici è un Paese a benessere diffuso. Le ragioni della riduzione del tempo dedicato al lavoro sono molteplici e possibili anche grazie al notevole aumento della produttività, all’utilizzo di tecnologie sempre più avanzate. La macchina quando rimpiazza l’umano lavora 24 ore su 24. Le forme di lavoro odierno non impongono più una presenza fisica continua, un ininterrotto contatto con i mezzi di produzione, il posto di lavoro, l’attività da manuale è divenuta sempre più concettuale. Stando alle analisi dei media, interessate ad un ridotto obbligo lavorativo sono in prima linea donne (e qualche uomo) con figli in giovane età e un’economia domestica sulle spalle. È scomparsa la famiglia patriarcale con il sostegno intergenerazionale. Simoltiplicano pure i casi di persone che aspirano a del tempo libero per coltivare i propri hobby, fare dello sport, dedicarsi a studi particolari o semplicemente a essere liberi e senza impegni. Non vi è che da compiacersene, la padronanza e disponibilità del proprio tempo èespressione di libertà.
Mutata pure la valutazione del lavoro, nello scorso secolo era ancora un’espressione del successo sociale, testimone della riuscita delle proprie aspirazioni, appartenenza. Tutti sentimenti meno presenti nei giorni d’oggi, il lavoro rappresenta un impegno che per molti è unicamente la fonte del sostentamento esistenziale.
Tutto bene, ma ci siamo dimenticati che la nostra vita si svolge nell’ambito di una ragnatela di leggi, regolamenti, ordinamenti (sempre più asfissianti) che lo Stato ci impone. Ora, questa ragnatela è stata costruita sulla base di certe ipotesi che dovrebbero rappresentare la realtà ed essere speculari agli atteggiamenti degli individui.
Come due noti economisti, Monika Bütler e ReinerEichenberger, in interventi indipendenti, osservano, il nostro sistema fiscale e di sostegni sociali si basa sull’ipotesi di cittadine e cittadini che con la loro capacità lavorativa contribuiscono alle necessità dell’ente pubblico.
Se una parte della popolazione decide di godere di maggiore libertà e limitarsi ad attività parziali con minor reddito, l’equilibro sul quale sin qui ci eravamo basati viene messo in pericolo. Tra l’altro chi percepisce meno,pagherà meno imposte, apparterrà ad una classe di contribuenti meno tassati, il tutto si riflette sui contributi sociali, AVS compresa. Alcuni che si accontentano di un reddito minimo potrebbero rientrare in categorie che ricevono sovvenzioni.
Discorso ancora più critico quando si tratta – e spesso è il caso – di laureati con parecchi semestri d’Università. Sappiamo quanto sia (giustamente) costosa la formazione dell’élite del Paese. Sembrerebbe che l’uso del lavoro parziale sia diffuso proprio tra laureati, più attratti dallo studio che non dal lavoro per terzi, ma i critici li definiscono degli approfittatori, costati molto per la loro formazione e che non contribuiscono alle necessità della società come era naturale attendersi.
E i media cominciano a porsi la domanda di come ristabilire l’equilibrio turbato. Vi è chi postula imposte basate sulla potenzialità contributiva del singolo, chi propone per contro alleggerimenti fiscali per chi lavora al di là di quanto dovrebbe, oppure deduzioni corrisposte ad ore in eccesso e chi infine si chiede se la flat rate tax sia la soluzione.
Il problema del ristabilimento dell’equità fiscale tenendo conto della disponibilità di tempo libero originata dal minor impegno lavorativo non è di facile soluzione anche perché coinvolge giudizi relativi alla libertà e scelta di vita del singolo. Il fatto di essere cittadino comporta un obbligo di lavorare indirettamente per lo Stato?
La continua invasione dell’ente pubblico nella sfera privata e la continua assunzione di compiti che costano (talvolta anche troppo) ci obbligano ad una specie di tassa di appartenenza quasi si trattasse di spese di condominio. La mia impressione, leggendo i media della Svizzera tedesca, è che il tema venga affrontato in un modo molto tecnocratico e statalistico e anche con un approcciomoralista e critico verso una diversa scelta di vita.
La professoressa Monika Bütler, specialista nella materia, ritiene che la nostra socialità non è più adatta alle forme di vita moderne. La previdenza per la vecchiaia, le sovvenzioni pubbliche, i costi per la formazione devono pertanto venir ripensati e riadattati.
Riflessione condivisibile anche tenuto conto di una tecnologia che oggi permette di sostituire la socialità indiscriminata e a pioggia, anche per chi non ne ha necessità, con interventi mirati e individuali ed è ora di capire che è assurdo che l’età di pensionamento del muratore sia la stessa di quella dell’architetto.