L’autore di questo interessante articolo discende in linea paterna da una famiglia all’epoca residente a Smirne.
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Esattamente un secolo fa, in Turchia, si chiudeva uno dei più bei capitoli della sua storia, la Belle Epoque del cosmopolitismo levantino. La Turchia oggi, è al centro del dibattito, per il crescente processo di islamizzazione e appropriazione dei simboli religiosi. Ma alcuni analisti, vedono quest’enfatizzazione della simbologia religiosa islamica, semplicemente, come una conseguenza dell’isolamento internazionale della Turchia e del logoramento del consenso elettorale, attorno alla sua premiership. Per di più, il Paese, è attraversato da una profonda crisi economica, che ha fatto crollare il valore della sua moneta e che ha costretto Receip Erdogan, a continui e repentini cambi, ai vertici delle istituzioni finanziarie.
Ma ci fu un tempo, in cui la Turchia, fu un modello di tolleranza e cosmopolitismo, per alcuni secoli, fino agli albori del Novecento. Sul finire dell’Impero Ottomano, prima che Kemal Ataturk sconquassasse il Paese, convivevano sulle coste dell’Anatolia, ebrei, armeni, cattolici e mussulmani. Città come Istanbul e Smirne, erano esempi di convivenza pacifica di varie comunità e di differenti confessioni religiose. Smirne, che veniva chiamata dai turchi, Giau Izmir (Smirne, l’infedele), verso la fine dell’Ottocento, era una bella e prospera città di 250000 abitanti, tra le più cosmopolite del tempo. Il cinquanta per cento della popolazione era greco-ortodossa ed il resto, turchi, ebrei, armeni (in maggioranza cattolici), cittadini italiani, francesi, tedeschi, inglesi, austriaci e olandesi.
A favore dei cittadini europei, vigeva il Regime delle Capitolazioni sancito da vecchi trattati, alcuni, risalenti, perfino, al tempo dei rapporti commerciali delle Repubbliche marinare con la Sublime Porta. Gli europei non erano sottoposti a tasse personali locali e le autorità turche non potevano entrare in casa loro, se non con l’assenso del rispettivo console. I consoli europei ricevevano gli atti di nascita e di morte dei loro sudditi e ne celebravano i matrimoni, oltre ad esercitare la giurisdizione amministrativa e contenziosa. I processi presso i tribunali turchi, in cui una delle due parti era straniera, dovevano svolgersi alla presenza del “dragomanno” (oggi, più comunemente, traduttore), una figura unica, di quel contesto, che ebbe nei secoli passati, un grande ruolo e che rese possibile nei secoli, i rapporti politici, commerciali e culturali degli Stati europei, con l’Impero Ottomano.
Smirne, aveva al suo interno un vero e proprio quartiere europeo, detto “franco”, (gli europei venivano sarcasticamente chiamati dai turchi, “franchi d’acqua dolce”), dove perfino i nomi delle strade, erano scritti in francese. La Rue des Francs, parallela al mare, ne era l’arteria principale e vi si concentravano i negozi, gli uffici degli armatori, degli assicuratori e dei banchieri. Il quartiere andò distrutto con il famoso incendio del 1922, durante la guerra greco-turca. Un evento drammatico, secondo le cronache, che pose fine a questa bella pagina di storia, come ricorda anche il libro della scrittrice italo-armena Antonia Arslan nel suo: “La strada di Smirne”.
Anche gli armeni, prima del genocidio, convivevano pacificamente con i turchi. Anzi, sul finire dell’Ottocento rappresentarono la spina dorsale dell’Impero Ottomano. Prima commercianti e poi banchieri, essi rivestirono un ruolo cruciale nel sistema bancario e amministrativo ottomano, regolando la zecca e il flusso delle imposte fondiarie e doganali del Sultano.
Gli Europei, chiamati invece levantini dai propri connazionali in Patria, avevano le loro scuole (in maggioranza religiose) e le loro chiese. Le lingue più parlate erano il francese, il frangochiotica (dialetto franco-greco), il greco e il ladino (dialetto giudaico-spagnolo).
Sul lungomare di Izmir, percorso da una tranvia a cavallo, vi si trovavano le belle case dei ricchi smirnioti, gli alberghi, i caffè, i circoli e i teatri. La vita culturale a Smirne era viva, si pubblicavano riviste e giornali in francese come Le Courrier de Smyrne, La Réforme e L’Impartial.
L’avvento della Repubblica Turca, spazzò in meno di un decennio, tutto questo. Oggi, in Turchia, queste comunità vanno riducendosi sempre più e i loro discendenti, almeno per parte italiana, si contano ormai, sul palmo di una mano. Molti europei tornarono in Patria e agli armeni toccò, come sappiamo, il destino peggiore. A quelli che riuscirono a sottrarsi al massacro, furono confiscati i beni. Molti di loro trovarono rifugio in Francia, e dovettero ricominciare dal niente.
C’è un film, più di altri, che rende l’idea del trauma a cui furono sottoposti, ma che accomuna chi dovette lasciare improvvisamente la terra natia. In “Quella strada chiamata Paradiso”, che non è altro che un’autobiografia del regista, il protagonista del film, Azad Zakarian, dice: “Il male peggiore dell’esiliato è la nostalgia di ciò che è perduto. Guai a cedere ai rimpianti, che gli fanno cedere il cuore e che gli fanno ricordare, cos’era una volta”.
Friedrich Magnani