Non è archeologia. E, forse, è proprio questo a rendere il fatto agghiacciante.

Il 27 luglio del 2007, verso le 15:30, i Vigili del Fuoco di Roma dovettero spegnere un incendio in via della Pescaglia, zona Magliana, divampato in un canneto vicino ad una pista ciclabile. Dopo aver domato le fiamme, i pompieri rinvennero un marsupio con all’interno un mazzo di chiavi e un portafoglio, contenente un documento d’identità. E, poco distante dal muro limitrofo, uno scheletro umano annerito e bruciacchiato. Completo. Solo il teschio si era spostato di qualche metro, forse per via dei getti d’acqua che lo avevano allontanato.

Il medico legale, professore Cipolloni, e gli uomini della polizia scientifica effettuarono i primi sopralluoghi: il medico legale ritiene che si tratti di un singolo individuo: le ossa sono perfette. E la carta d’identità rinvenuta tra le sterpaglie, appartiene a Libero Ricci, nato nel 1926 e scomparso nel 2003, pensionato. Così, l’analogia si fa semplice. La chiave all’interno del marsupio apre l’abitazione dello scomparso. L’uomo, all’epoca della scomparsa 77 enne, lavorava per ditte al servizio del Vaticano.

Eppure, i familiari dello scomparso sostengono che i resti vestiari non corrispondano con quanto indossato da Libero al momento della scomparsa. Così, richiedono ed ottengono il test del DNA. I risultati arrivano tre anni dopo, nel 2010: l’esito è negativo. E, anzi, raccapricciante. Come spiega il sito della polizia penitenziaria: “le ossa non appartengono a Libero Ricci (il cui DNA al 50% era stato, appunto, campionato dai figli), ma sono i resti di cinque individui differenti: 3 femmine, classificate in “F1”, “F2”, “F3” e 2 maschi, catalogati in “M1” e M2”, le cui morti sono avvenute in un arco temporale che va dal 1989 al 2006. L’Istituto di Medicina Legale di Roma attribuisce il teschio, le vertebre e l’emicostato destro, con la particolarità dei denti usurati ed esiti di fratture costali, a una donna tra i 45 e i 55 anni, la cui epoca della morte risale tra il 2002 e il 2006 e che verrà appunto classificata come “F1”. La tibia destra appartiene a “F2” una seconda donna, deceduta tra il novembre del 1992 e il febbraio del 1998, di una età compresa tra i 20 e i 35 anni. La fibula destra appartiene alla terza donna “F3”, morta tra il 1995 e il 2000, tra i 35 e i 45 anni. Il resto delle ossa appartengono a due uomini: scapola e arto superiore destra è attribuito a “M1”, morto tra il 2002 e il 2006, tra i 40 e i 50 anni di età e il femore destro a “M2”, tra i 25 e i 40 anni, morto tra il 1986 e il 1989”.

Nessuna corrispondenza emerge tra le persone scomparse dal 1992 al 2006. Chi può aver compiuto un’azione simile? Un ladro di tombe, un necrofilo? Sui resti umani, però, non vi sono tracce di zinco o di materiali impiegate per le bare.

Nel 2011,  F1, la donna a cui appartengono il teschio e la spina dorsale dello scheletro risulta legata da un vincolo biologico di parentela con la mamma di Libero Ricci, Rebecca Moscato, morta nel 1987.

Solo nel 2017 il DNA di F2, la più giovane delle donne le cui ossa sono state usate per disegnare lo scheletro romano, è stato comparato con esito negativo con quello di Alessia Rosati, ventunenne scomparsa a Roma il 23 luglio del 1994.

L’indagine viene archiviata “il collezionista di ossa” resta tuttora un mistero. Di certo, costui doveva avere una perfetta conoscenza dell’anatomia umana. Si è voluto disfare dei suoi macabri cimeli? Ha voluto intessere un macabro gioco con le forze dell’ordine? I resti delle cinque persone appartengono a cinque omicidi diversi? Il giallo resta senza fine.