Un film del 2011 fu l’occasione per indagare – oltre che su di una drammatica vicenda – su di un’Unità incompiuta, sulle insanabili differenze tra nord e sud, sulle diverse ricezioni del Tempo e della propria – singola – storia, diversa a seconda delle diverse latitudini d’Italia.
Il 17 novembre 1878 un giovane di 29 anni tentò di accoltellare re Umberto I, in visita a Napoli, assieme alla regina Margherita e al ministro Cairoli. Fu graziato, dopo un processo che aveva avuto un seguito mediatico, accanito e moderno. Ma fu sepolto vivo. L’ergastolo – anziché la condanna a morte – consistette in una prigionia in una torre sull’isola d’Elba, che da lì prese il nome di “torre di Passannante”. Durò 9 anni, la prigionia. Quando Gaetano Bresci nel 1900 riuscì laddove Passannante aveva fallito, ovvero quando Umberto morì assassinato, Passannante fu liberato e traslato in manicomio, dove morì, cieco e folle. Salvia di Lucania, la città natia di Passannante, dopo l’attentato, mutò nome in “Savoia di Lucani”: quasi per chiedere scusa al re. A questa triste vicenda, nel 2011, è stato dedicato un film “Passannante”.
Premiato al Festival di Malta, il film, nonostante il basso budget e il basso incasso, ha riscosso critiche positive. Si svolge su due piani, quello contemporaneo e quello storico. Si apre nei primi anni 2000, con un carabiniere che su una barca a remi conduce due uomini alla torre della Linguella, laddove Passannante fu sepolto vivo. Ma il carabiniere – si scopre – è in realtà un attore, Ulderico, che sta preparando uno spettacolo su Passannante stesso. Proprio come aveva fatto Giovanni Pascoli, che nel 1878, scontò sei mesi di carcere per aver scritto un’ode – poi perduta – sul prigioniero di casa Savoia.
In apertura del piano storico del film, invece, la scena della decapitazione del corpo di Passannante, deceduto al manicomio di Montelupo Fiorentino: a reclamare il cranio è un ufficiale del Regio esercito, con l’incarico di traslare il teschio e il cervello al museo criminale, dove sarà studiato fino al 1987. “La vendetta di Casa Savoia”, come dice una guardia, si attua così: post mortem.
Ecco allora spiegata la frase d’introduzione del film d’autore, una citazione dall’Antigone di Sofocle, che seppellisce il fratello Polinice, nonostante la legge. Sul versante contemporaneo, i tre lucani, “fratelli” di Passannante, esigono che il cranio sia tumulato assieme al corpo, e che l’anarchico possa riposare in pace.
Inizia così una narrazione duplice: da un lato il processo farsa a Passannante, la volontà dei ministri regi di farlo passare da “pazzo”, la piena consapevolezza, da parte del condannato, del proprio atto (una lama troppo corta per uccidere il re, e pagine di scritti per un “nuovo ordine universale”, nella speranza di più diritti e tutele per le classi meno abbienti), e poi la crudele freddezza dei ministri, che inducono l’umile sindaco di Salvia di Lucania a cambiare nome al suo paesino in “Savoia di Lucania”, sotto lo sguardo vuoto di contadini stanchi; dall’altro lato l’influenza postunitaria sui giorni nostri, le insanabili differenze tra Nord e Sud (quanto può contare la causa lucana per un ministro che parla lombardo? Quanto può contare la causa savoiarda, di una monarchia scomparsa, su di un delegato che parla dialetto lucano?).
Vediamo, infatti, la parodia di due governi. Nel primo (il Berlusconi IV) un anonimo ministro leghista (con una procace segretaria in canotta verde) che si definisce “padano da sempre” e che riceve due delegati di Savoia di Lucania, lucani sino alle midolla (uno dei due parla in dialetto) chiamati dal ministro “italiani da poco”, ma fedeli alla causa dei Savoia e ostili alla memoria di Passannante, che essi ritengono nient’altro che un “precursore delle brigate rosse”. E poi, nel secondo (il governo Prodi II), un ministro campano, che mangia le mozzarelle in studio e che però – occhio di parte ingentilito dal regista – accetta di seppellire il cranio di Passannante assieme al corpo. Piangono, i tre protagonisti, e festeggiano la sepoltura del proprio fratello. Come Antigone.
Pregevole, nella narrazione cinematografica, i fotogrammi originali del rientro dei Savoia, nel 2003, in Italia. Perché, si chiede il protagonista Ulderico, i Savoia – che firmarono le leggi razziali nel ‘39 – possono rientrare in Italia, e Passannante – che graffiò il re, per ottenere più diritti per la sua gente – non può riposare in pace?
Pregevole l’ambientazione storica dei pochi frame in cui la storia volge al 1878: la prigionia di Passannante, la crudeltà del suo carceriere, che lo torturerà sino alla follia.
(Passannnante guarda il randello)
(Il carceriere minaccia Passannante)
Notevole l’inserimento del personaggio dell’onorevole repubblicano Agostino Bertani, che nel 1878 chiese ed ottenne di vedere Passannante e ne rimase sconvolto. Sino al 1885 (quando morì) Bertani ne chiese, invano, la liberazione.
(Agostino Bertani parla al carceriere)
E poi la regina Margherita, quella della pizza, che pronunzia la celebre frase “si è rotto l’incantesimo di casa Savoia”. Struggente, infine, la follia di Passannante sotto gli occhi di Bertani; divenuto cieco, resterà folle sino alla morte, quando distruggerà l’orticello coltivato – per pietà – al manicomio.