A cura di Fabio Traverso
L’applicabilità di discipline marziali e sport di combattimento a situazioni “reali” di autodifesa da strada è tema che da sempre infiamma gli appassionati, generando dibattiti quasi filosofici in cui , partendo da esempi idealtipici e domande retoriche, ci si interroga sull’efficacia di questa o quella disciplina, a volte giungendo alla conclusione per cui “la miglior difesa è la fuga” (ma in questo caso sarebbe più utile dedicarsi sic et simpliciter alla corsa).
E se nella metropolitana di Milano vengo aggredito da una baby gang? E se alla stazione Termini intervengo in difesa di una fanciulla stuprata da un energumeno? E se guidando a Colleferro tampono un auto da cui scendo per picchiarmi i fratelli Bianchi? E Se…..Partendo da queste situazioni scaltri youtuber magnificano la propria disciplina denigrando quelle altrui, esperti di marketing insegnano tecniche capaci di risolvere qualsiasi aggressione in pochi secondi e così via.
L’approccio di chi affronta il combattimento da strada con l’animo da ksatrya è invece radicalmente opposto da chi frequenta una palestra o un corso con l’ambizione di acquisire una polizza assicurativa anti-aggressione: il ksatrya per professione o per attitudine sa bene che questa polizza non esiste: affrontare un combattimento da strada significa , quale che sia la nostra preparazione, andare incontro quasi sempre a seri danni fisici , ben che vada un occhio nero, nella peggiore delle ipotesi organi lesionati, denti rotti o peggio.
Il nostro antagonista nella maggior parte dei casi è una persona con un naturale livello di testosterone molto alto che lo rende temibile nel corpo a corpo anche se fuori allenamento, se ha assunto alcool o stupefacenti questi faranno da inibitori al dolore, molto spesso sarà del tutto disinteressato alle conseguenze giuridiche e penali dei suoi atti.
Tuttavia il ksatrya sa che in determinate situazioni “bisogna fare quello che deve essere fatto” come nell’insegnamento della bhagavad gita ovvero combattere indipendentemente dall’esito del combattimento , quell’esito che invece ossessiona il praticante tipico di discipline di autodifesa.
E’ utile riconsiderare, a questo proposito, ciò che scriveva, a latere del programma politico futurista, Filippo Tommaso Marinetti sulla necessità di istituire “scuole di coraggio” per permettere a tutti i cittadini di garantire la propria autodifesa facendo a meno di polizia e esercito.
Quella di Marinetti era, certo , un’utopia, ma un’utopia salvifica e feconda , al contrario di un’altra utopia che le si contrapponeva, quella di un monopolio assoluto della violenza da parte dello stato , di un poliziotto ad ogni angolo di strada .
Significativamente Marinetti parla di “coraggio” e non di particolare destrezza nelle arti marziali, in quanto impegnarsi in combattimento richiede in primis coraggio, fisico e psicologico, molto più che non forza fisica o preparazione tecnica.
La violenza intraspecifica, insegnava Lorenz, è qualcosa di assolutamente innaturale e per esercitarla è necessario un salto in una condizione extra-umana, salto che può essere verso il basso come nel caso del bruto che aggredisce i tifosi avversari allo stadio o verso l’altro come nel caso del ksatrya che interviene per ristabilire l’ordine.
Ma in quest’ultimo caso molto prima che tecnica o un’estetica marziale è necessaria un’etica come quella del cavaliere medioevale della “militia christi”
F.T.