In “Ulisse” Lord Alfred Tennyson immagina che Ulisse, il mitico re di Itaca, ritornato a casa, non si pasca della quiete ritrovata ma, un po’ come l’Ulisse di Dante (che Tennyson sicuramente doveva aver presente), voglia riprendere il proprio viaggio avventuroso. A differenza dell’Ulisse dantesco, però, l’Ulisse di Tennyson ricorda con nostalgia i campi di battaglia e la gloria ormai lontana, divenendo così simbolo dell’uomo degli albori del secolo scorso, in cerca di nuove avventure, ma anche conscio della propria quiete ritrovata. Pubblichiamo l’Ulisse di Tennyson, pubblicato nel 1833 e oggi tradotta in italiano dal professor londinese John Hazel.
è utile appena che un re inattivo
Accanto a questo tranquillo focolare, tra queste aride rupi
Unito a una anziana moglie, infligga e distribuisca
Leggi disuguali a una razza selvaggia
Che accumula, dorme, mangia, e non mi conosce.
Non posso riposarmi del viaggio; berrò
La vita fino al mosto; ho molto gioito di ogni tempo,
Ho molto offerto assieme a coloro
Che mi hanno amato, e solo, sulla costa e quando
Attraverso il vento le piovose Iadi di nuvole scivolanti
Vessano il fioco mare: io sono divenuto un nome
Vagabondando sempre con un cuore affamato.
Ho visto e saputo molto: città di uomini;
E manieri, climi, concili, governi,
Nonché ultimo me stesso, ma ho onore di tutti loro ;
Ed ho bevuto la gioia delle battaglie coi i mei pari
Lontano sulle reboanti piane di Troia ventosa.
Io son parte di tutto quello che ho incontrato
Ma ogni esperienza è un arco attraverso il quale
Brilla il non percorso mondo di cui margine svanisce,
Per sempre e per sempre quando viaggio.
Com’è noioso fermarsi e finire,
Arrugginirsi non brunito e non brillare nell’ uso
Come se a respirare fosse la vita. Vita sopra vita
Sarebbe troppo poco, E di una vita a me
Poco rimane: ma ogni ora è tratta in salvo
Dell’ eterno silenzio, qualcosa in più
Portatore di novità; e sarebbe vile
Per tre soli mi servare e mettermi da parte;
E questo grigio spirito struggendosi nel desiderio
Di seguire la conoscenza come una stella cadente
Oltre l’estremo confine dell’umano pensiero.
Questo è mio figlio, il mio Telemaco,
Al quale lascio lo scettro e l’isola –
Molto amato da me, cercante di compiere
Questo lavoro, con lenta prudenza per fare mansueto
Un popolo rude, e per molli gradi
Sommetterlo al utile e al bene.
Egli è tutto innocente, occupato nella sfera di compiti comuni,
Certo di non mancare ai uffici di pietà
E a pagare giusto culto dopo la mia morte
Ai miei dei domestici. Egli fa il suo lavoro ed io il mio.
Ecco il porto: la nave gonfia la vela:
Lá i mari, scuri e lati, son foschi.
I miei marinai, anime che han ben lavorato
E fatto e pensato con me – che sempre prendevano
I tuoni e il sole con un gradito allegro
E opponevano cuori liberi, fronti libere –
Io e voi siamo vecchi: la vecchiaia ha ancora
Il suo onore e il suo duro lavoro;
La morte pone fine a tutto, ma qualcosa
Prima del fine, qualche opera nobile puó esser fatto,
Non sconveniente a quelli che lottavano con dei.
La luce comincia a scintillare dalle rocche,
Il lungo giorno declina, la luna sale lentamente,
Il mare geme attorno con molte voci.
Venite, amici, non è troppo tardi per cercare un nuovo mondo.
Salpate, e ben seduti in ordine colpite i solchi sonanti.
Il mio proposito tiene, di navigare oltre il tramonto
E i tuffi di tutte le stelle occidentali, finché muoia.
È possibile che i golfi ci risucchino, è possibile che noi approdiamo
alle Isole Felici e vediamo il grande Achille che abbiamo conosciuto.
Benché molto sia tolto, molto rimane, e bench’io non abbia piú quella forza
Che in passato mosse la terra ed il cielo, siamo ció che siamo:
Un’ equale indole di cuori eroici, indeboliti dal tempo e dal fato,
Ma forti nella volontà di sforzarsi, cercare, trovare e non arrenderci mai.