Emanuele Martinuzzi è nato nel 1981 a Prato in Toscana, dove vive tuttora. Da quando aveva dodici anni si dedica alla Poesia. Laureato all’Università di Firenze in filosofia. Da qualche anno scrive recensioni teatrali per Teatrionline, il portale del teatro italiano. Numerose pubblicazioni poetiche al suo attivo. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti nazionali e internazionali, tra cui Finalista al Premio Camaiore e il Sigillo di Dante come Ambasciatore Letterario per la Società Dante Alighieri. Ha partecipato al progetto “Parole di pietra” che vede scolpita su pietra serena una sua poesia e affissa in mostra permanente nel territorio della Sambuca Pistoiese assieme a quelle di numerosi artisti e personaggi di cultura
Queste parole di seguito gettate, senza nessun riserbo né struttura, non sono altro che una lettera appassionata di amore verso il teatro e quando si scrive con amore fuoriesce da quei segni senza significato che abbandoniamo sul foglio bianco le sole risposte che in qualche modo comunicano tutto di noi stessi, le parti che più si conoscono, quelle che non avevamo neanche osato immaginare né sperimentare, quelle più ingenue, le più abissali, perché no le più profonde a volte, molto spesso le più scontate. Tuttavia siccome il soggetto amato si trova in una forzata assenza e lontananza, resa ancora più sofferta dal drammatico contesto in cui si inserisce, spesso il sentimento nel diradarsi nello spazio e nel tempo assume le sembianze di una riflessione, un’analisi, o in questo caso un filosofeggiare sul teatro, ossia da una prospettiva di distacco l’amore diventa volontà di conoscenza dell’oggetto amato. E conoscere si sa è una forma di immaginazione, infine di speranza. Quando ci si accorge che l’assenza di qualcosa che si è sempre vissuto come presenza, smuove una fiumana prepotente di sentimenti silenziati, nascosti, lontani e carnali, spesso giunge la riflessione come una diga di fronte a tanto spropositato sentire. Quando le emozioni ti attanagliano, allora a volte ci si può rifugiare nelle astrazioni, quando una realtà viva e pulsante come quella del teatro si allontana, non rimane che coglierne l’essenza e questo stesso slancio intellettuale che cos’è se non la quintessenza di un atto d’amore, lacerato dal destino.
[..] il saggio critico è esso stesso un’opera teatrale. Come concepire tale rapporto tra il teatro e la sua critica, tra l’opera originaria e quella che ne deriva?[1]
Seppur da questa lontananza il teatro non smette di comunicarci il suo struggimento, che è lo stesso alfabeto con cui noi tentiamo di farci comprendere da lui e parallelamente lui tenta di tradurre la nostra connaturata assurdità in qualcosa di comprensibile, o anche nella bellezza di qualcosa altrettanto incomprensibile, da poterla però amare e abbracciare con un unico slancio dei sensi. L’incanto della rappresentazione della vita, che il teatro in qualche modo ha l’onore metafisico e carnale di poter compiere, si palesa in realtà sempre nel suo contrario. Alla fine il teatro è la vita e la vita una delle tante e imperfette rappresentazioni del teatro stesso. È il mistero della vita che si approssima al teatro come una rappresentazione, che arriva a riconoscersi solamente nello struggimento, in quel vivo rispecchiamento che sta alla base di ogni genesi teatrale. Palcoscenico e platea sono due mitologie che stanno l’una di fronte all’altra, in attesa che l’una si mostri come la realtà e l’altra come la finzione, come Narciso di fronte alla sua immagine riflessa, questa bellezza, incastonata nella realtà, si ammira e agogna distruggersi nella sua immagine, in questo struggimento annichilente si compie il destino della rappresentazione e della vita, che è quello di fondersi in un tutt’uno, al di là della forma e del contenuto, non meno attraverso di essi. In questa attesa, che dura dalla notte dei tempi del teatro, la vita si muove per essere rappresentata e la rappresentazione per farsi vita. Narciso si sottrae all’esistenza cadendo nella sua immagine e in essa viene immerso e incarnato alla morte, così l’immagine di questo echeggia senza fine nelle acque del sogno e di una nuova vita.
Per operazione, bisogna intendere il movimento della sottrazione, dell’amputazione, ma già ricoperto dall’altro movimento, che fa nascere e proliferare qualcosa di inatteso, [..].[2]
In questo senso, paradossalmente, si potrebbe dire che il teatro c’è, esiste, parla, grida, danza, anche quando non c’è, inabissato nella lontananza, silenziato in un mondo senza rappresentazioni, cristallizzato nelle forme cadaveriche dell’artificiale, inardito da radici che più non volano, e invece la vita non fa capolino nell’essere, se non quando la voce del teatro la evoca nell’oltre dell’esistenza, che vibra tra essere e non essere, tra volto e specchio, tra essenza e apparenza, tra nascita e morte.
Egli detesta ogni principio di costanza o di eternità, di permanenza del testo: “Lo spettacolo comincia e finisce nel momento in cui lo si fa”. E così, esse finiscono con la costituzione del personaggio, non hanno altro oggetto che il processo di tale costituzione, e non vanno oltre. Finiscono con la nascita mentre in genere si finisce con la morte.[3]
Tanto più si arriva a detestare la vita, tanto più si ama smisuratamente il teatro. Tanto più si ama follemente la vita, tanto più si ama con tutte le ragioni possibili il teatro. Il corpo stesso dell’attore è un palcoscenico, in cui si compiono gli interrogativi irrisolti e i drammi dell’umanità, che non è tale se non nella vita che il teatro sa donare, senza un perché e senza volere niente in cambio, se non quel poco di tutto che l’uomo non comprende di sé stesso. Gli attori nella platea osservano quella che reputano essere la rappresentazione della loro vita reale diventare a poco a poco ciò che già segretamente incarna: la vita come rappresentazione fittizia del teatro. La dicotomia realtà e finzione, vita e teatro, morte e vita, è del tutto arbitraria e illusoria, uno spettacolo anch’esso, un rito arcaico e dionisiaco, dove la forma e il contenuto si annichiliscono a vicenda. C’è un’intima essenza silenziosa, che l’umanità senza nome nella vita e l’umanità dotata di voce sulla scena del teatro vivono in una comunione viscerale e speculativa, appunto ancora dionisiaca e apollinea.
Se a teatro il testo non è tutto, se anche la luce è ugualmente un linguaggio, questo vuol dire che il teatro custodisce la nozione di un altro linguaggio, che utilizza il testo, la luce, il gesto, il movimento, il rumore. È il Verbo, la parola segreta che nessuna lingua può tradurre. È, in un certo qual modo, la lingua perduta dopo la caduta di Babele.[4]
Attraversata da un linguaggio sconosciuto e profetico è l’umanità che si riconosce, misconosce, costruisce e distrugge, nell’atto primigenio e contemporaneo del teatro, ossia in quell’incontro rituale tra un essere che non si sa ancora uomo e un altro, che lo si scoprirà soltanto nell’atto di osservarsi nell’altro. L’uomo che osserva la scena prendere vita sul palcoscenico è attore tanto quanto i soggetti cosiddetti recitanti, anzi è proprio il suo illusorio abitare la vita reale che crea le condizioni esistenziali e speculative, perché l’atto della finzione diventi realtà ed ogni realtà si palesi come rappresentazione di un mistero. Questo meccanismo epico, questa mitologia sempre rispecchiante in qualcosa di ignoto ed incerto, rende possibile per l’attore sulla scena di osservarsi nella sua umanità non completamente assorbita dal personaggio e allo stesso modo l’umanità spettatrice di osservarsi nel suo essere attore di un dramma o di una commedia più sottile, profonda e straniante. Il teatro è un vibrare e un pulsare di un mistero buffo che nel vivere ci rappresenta, che nel rappresentarsi vive.
Il pregio principale del teatro epico, basato sullo straniamento, il cui scopo è rappresentare il mondo in maniera che divenga maneggevole, è precisamente la sua naturalezza, il suo carattere tutto terrestre, il suo umorismo, la sua rinuncia a tutte le incrostazioni mistiche che il teatro tradizionale si porta appresso fin dall’antichità.[5]
Parafrasando Brecht si potrebbe dire che la realtà stessa sia un’opera di straniamento paradossale, innaturale e terrestre di quel momento leggero, naturale e celeste che risulta essere il teatro per chi lo ama e non può non amarlo, per chi lo detesta e non può non vivere in questa vertigine di misconoscimento, riconoscendolo tra la folla delle arti come quella che più lo somiglia o lo conturba, perché incessantemente lo chiama, lo snatura dall’illusione della materia nel territorio aperto delle visioni, delle cose e dello spirito, di ciò che illumina l’essere di tutto ciò che è gettato nel mondo, le relazioni dell’uomo con l’uomo, degli oggetti con le persone per ciò che essi veramente rappresentano, degli oggetti con se stessi; una folgorazione sul mondo e sulla società molto spesso abbuiata da meccanismi di de-significazione. L’oggetto che abita la scena del teatro magicamente diventa soggetto, acquisisce quella complessità di gesto e comportamento che nella cosiddetta realtà possiedono, per convenzione, solamente gli esseri dotati di parola o movimento. Non si può non notare come l’atto puro del teatro evoca le cose e gli esseri a diventare persona, fulcro di senso e interrelazioni con la complessità del reale, a dare voce ai silenzi come nel poetare della materia che si fa spirito, tornando a manifestarsi nella sua più essenziale ombra e natura. Ogni essere può raccontare una storia, la sua storia di grumo di atomi e di sogni.
Il teatro non è il paese della realtà: ci sono alberi di cartone, palazzi di tela, un cielo di cartapesta, diamanti di vetro, oro di carta stagnola, il rosso sulla guancia, un sole che esce da sotto terra. Ma è il paese del vero: ci sono cuori umani dietro le quinte, cuori umani nella sala, cuori umani sul palco.[6]
Fino a quando il teatro segnerà una civiltà con la sua assenza, anche la realtà sarà come cristallizzata, in letargo, in quel sonno che fa delle emozioni e della mente un limbo in cui ogni oggetto dotato di voce o meno, e ogni soggetto, animato o inanimato che sia, inscenerà un soliloquio senza palcoscenico, un parlarsi a vanvera linguaggi sconosciuti, come un folle alla ricerca della verità o della menzogna, tanto è lo stesso, dispersi in una nebbia senza nome, che avvolge tutto quello che una volta era vissuto nella pienezza tormentata della presenza. Perché caro teatro sei il non-luogo dell’incontro con noi stessi, la pelle dell’accadere, il tempo del vivere eterno con l’altro, non meno il rito ancestrale radicato nel futuro, quel razionalismo primitivo così vicino alla veglia e al sonno, l’unico amore a cui poter tacere un Odi et amo.
Amore è un fumo levato col fiato dei sospiri; purgato, è fuoco scintillante negli occhi degli amanti; turbato, un mare alimentato dalle loro lacrime. Che altro è esso? Una follia discreta quanto mai, fiele che strangola e dolcezza che sana.[7]
Emanuele Martinuzzi
[1] Un manifesto di meno, Gilles Deleuze
[2] Ibidem
[3] Ibidem
[4] Messaggi rivoluzionari, Antonin Artaud
[5] Scritti teatrali, Bertolt Brecht
[6] Opere, Victor Hugo
[7] Romeo e Giulietta, William Shakespeare