Era una sera calda e silente, quella che si stendeva sulla campagna assolata del 10 giugno del 1981, quarantatre anni fa, quando Alfredino chiese ai genitori che stavano rincasando di precederli, ma non fece mai ritorno a casa. Alle 19, mezz’ora dopo, il padre Ferdinando, allarmato dal fatto che il figlio non fosse ancora tornato a casa, chiamò la polizia. Iniziava così un’agonia durata 60 ore.
Grazie al brigadiere Giorgio Serranti, si scopri l’esistenza del pozzo (su cui il proprietario del terreno sovrastante aveva messo una lamiera intorno alle ore 21:00, dopo che erano già iniziate le ricerche, senza minimamente immaginare che all’interno ci fosse intrappolato il bambino scomparso). Serranti pretese di ispezionare ugualmente il pozzo e, fatta rimuovere la lamiera infilò la sua testa nell’imboccatura e riuscì così a udire i flebili lamenti di Alfredino.
Tra i soccorritori accorse il tipografo d’origine sarda Angelo Licheri, piccolo di statura e molto magro, che chiese e ottenne allora di farsi calare nel pozzo originario per tutti e 60 i metri di profondità. Licheri, cominciata la discesa poco dopo la mezzanotte fra il 12 ed il 13 giugno, riuscì ad avvicinarsi ad Alfredino, tentò di allacciargli l’imbracatura per tirarlo fuori dal pozzo, ma per ben tre volte l’imbracatura si aprì; tentò allora di prenderlo per le braccia, ma il bambino scivolò ancora più in profondità. Per di più, nel tentativo, involontariamente gli spezzò anche il polso sinistro. In tutto, Licheri rimase a testa in giù 45 minuti, contro i 25 considerati soglia massima di sicurezza in quella posizione, ma dovette anch’egli tornare in superficie senza il bambino.
Licheri fu l’unico ad essere riuscito a parlare ad Alfredino. “Per anni”, raccontò in seguito “sognai la morte che veniva a prenderlo”.
Un altro ragazzo, di 16 anni, originario di Napoli, chiese di calarsi, ma scoperto che era minorenne e senza il diretto consenso dei genitori, gli fu proibita l’impresa.
Fu Donato Caruso, uno speleologo, a tentare per ultimo l’impresa: tentò di acciuffare i polsi del bambino con delle fascette da detenzione psichiatrica, senza riuscirci, poiché Alfredino scivolò giù al primo strattone, tentò allora con delle manette, senza riuscire ad afferrare Alfredino. Caruso tornò in superficie senza esser riuscito nell’intento, riportando inoltre la notizia della probabile morte del bambino.
Il giorno dopo fu calata una telecamera per riprendere la sagoma del bambino che, ormai immobile, non respirava più.
Solo un mese dopo il corpo fu recuperato: era stato conservato con gas rigenerante, immesso per ordine di un magistrato.
Le operazioni di salvataggio si erano svolte in diretta continua (con alternate pubblicità, non senza polemiche per “l’utilitarismo” del tragico), sotto gli occhi di milioni di italiani.
Sul posto era intervenuto anche il presidente della Repubblica Pertini, che aveva tentatp di rincuorare personalmente il bimbo, incitandolo a resistere.
Per l’Italia, quella di 40 anni fa, fu una sconfitta: complici la confusione, l’impreparazione, la sfortuna, la fretta, tutto contribuisce a decretare la sconfitta, la mattina del 13 giugno l’Italia ascoltò l’annunciodel conduttore del Tg1 Massimo Valentini che, in lacrime, comunicava che il corpo di Alfredino era sprofondato altri 26 metri, nelle viscere della terra.
scivolato giù, sprofondando per 26 metri in fondo a quel pozzo nel quale sono rimaste sepolte anche le responsabilità, mai accertate, di chi lo lasciò scoperto.
Il proprietario del terreno in cui era sito il pozzo, Amedeo Pisegna, abruzzese di 44 anni, insegnante di applicazioni tecniche, venne poi in seguito arrestato con l’accusa di omicidio colposo e con l’aggravante della violazione delle norme di prevenzione degli infortuni.
Le molte responsabilità anche di altri, tuttavia, restarono per sempre anch’esse sepolte.