Il regista Pupi Avati ha realizzato un film che, con la sua volgarità, mette in luce gli aspetti meno eleganti della vita dell’uom nel film su Dante Alighieri. Martino mora, professore di storia e filosofia, in questo articolo critica l’approccio del regista al Sommo Poeta.

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il 23 agosto sera su Rai 3 ho visto il recente film di Pupi Avati su Dante Alighieri, Mal me ne incolse.

E’ un film scellerato, spregevole, degradante, in cui il più grande poeta cristiano della storia viene rappresentato nel modo più laido possibile.

Avati mostra il giovane Dante mentre defeca coi commilitoni, alla vigilia della battaglia di Campaldino. Non manca di inquadrarlo anche nel momento in cui, andato di corpo, si pulisce il didietro con le foglie.

Che anche il sommo poeta andasse di corpo potevamo intuirlo da soli. Ma Avati lo deve mostrare. Deve mostrarcelo e pure nel dettaglio, laidamente.

Poi, dopo la battaglia vinta, Dante e l’amico Guido Cavalcanti vanno insieme a prostitute. Avati si compiace di descrivere Dante e Guido in preda ai furori della carne, e pure senza cuore. Infatti le due prostitute sono “vendute” dai loro genitori. Ma i due stilnovisti, infoiati, le usano senza provare alcuna pietà.

Traspare chiaramente il desiderio di Avati di sporcare, insozzare, abbassare, attraverso l’ossessione per la carne, ciò che intimamente disprezza.

Non a caso Beatrice appare una creatura da film horror, con lo sguardo perennemente allucinato, non una fanciulla capace di suscitare amore. E’ lei che provoca in Dante grottesche e inquietanti allucinazioni, che sembrano trasposte da un film di Dario Argento.

In quanto alla carnalità ossessiva, ripetuta, viene morbosamente inquadrato l’enorme, pachidermico sedere ignudo del di lei marito, Simone de’Bardi. Apparentemente senza motivo, al pachidermico deretano nudo del de’Bardi è dedicata una lunga inquadratura.

Anche le mani piagate dalla scabbia di Giovanni Boccaccio (l’altro protagonista del film) vengono mostrate nel morboso dettaglio.

Incapace di elevarsi al bello e al sublime, Avati deve fissarsi sul brutto, sul laido e il deforme. E sul grottesco, la vera cifra stilistica della nostra epoca.

Avati si definisce “credente”. Forse lo è di una spiritualità perversa, alla rovescia. Non si spiega altrimenti tanta compiaciuta putredine.

Purtroppo Avati non è un caso isolato. Tutto il sistema orgiastico- mercantile è ripugnante. Viviamo nel nichilismo compiuto.

Una civiltà che tratta in questo modo indegno e ributtante il suo più grande poeta è una civiltà senz’anima, che perisce meritando di perire.

Martino Mora a Pomeriggio 5 in una disputa filosofica con Barba d’Urso