L’uomo dietro il santo, Paolo dietro Saulo, la ragione dietro il miracolo: così Cristoforo Gorno, oltrepassando l’insidioso credo quia absurdum est di tertullianea memoria, prevede con lungimiranza l’agostiniano crede ut intelligam e si addentra nella rischiosa avventura di far raccontare in prima persona, a Paolo, la sua visione.
Il risultato è un’interpretazione di straordinaria vitalità, che parla tanto ai credenti quanto agli agnostici.
Se Pilato è caduto nell’equivoco di infliggere una condanna politica a Iesus inviso agli ebrei, credendo così di appoggiarsi a Caifa, attraverso il sangue di un innocente, il governatore Marcello non sarà altrettanto sprovveduto: al contrario affiderà a Saulo di Tarso (che entra in scena solo nel decimo capitolo), il compito di lenire i violenti attriti tra ebrei e dominatori romani, anzi, di aiutare coloro che, a differenza degli ebrei, parlano di pace e non di guerra. E se Iesus non disse forse “date a Cesare quel che è di Cesare?”, quale migliori alleati di Roma, che non i Cristiani?
Ma Paolo, che sa parlare latino, greco ed ebraico, divenuto la perfetta spia romana, viene ben presto schiacciato dalle sue stesse colpe e divorato dal rimorso, e trova così una via d’uscita al senso di colpa in quella stessa “setta” sulla quale egli sta indagando, sino a riconoscere, nel cristianesimo nascente, la Verità.
Il Paolo di Gorno, cioè, finisce per credere nella sua stessa missione, oltrepassando il compito affidatogli dai romani, e facendo di esso la più grande opera di “predicazione del Verbo”. Altrimenti perché i romani avrebbero dato credito a un ragazzino, concedendogli addirittura di entrare nella fortezza Antonia, per avvisare Paolo di un anatema, nel quale gli ebrei avevano giurato di non bere né mangiare sino che non avessero ucciso colui che predicava la nuova religione? (Atti degli Apostoli, 23, 12-16)? Perché lo avrebbero addirittura scortato a Cesarea, e ivi custodito sotto scorta armata per due anni (Ivi, 23, 26-33)? Perché gli avrebbero concesso una scorta, durante il suo ultimo soggiorno romano?
La tesi di Cristoforo Gorno è entusiasmante, affascinante, illuminante. Certo, in altri tempi lo avrebbero arso al rogo (come d’altra parte toccò a Bruno e rischiò Galilei), ma anziché allontanarsi dai dogmi della fede, l’autore si apre anche alle altre credenze, mettendole a confronto con il successo, non avulso da ombre, del cristianesimo.
Così, l’epicureismo dei centurioni romani che sperano di finire in pace la propria vita, viene raffrontato alla promessa della vita eterna di Paolo; ma anche il cutlo materno della Vergine Artemide di Efeso, così inizialmente rigettato dai cristiani, potrebbe prefigurare la nascita della devozione alla Vergine Madre, di Dio.
La Spia Celeste è un romanzo corale, narrato da donne (parla la moglie di Pilato, parla un’umile indovina di Filippi, parla la sacerdotessa di Efeso, parlano le principesse giudee Drusilla e Berenice, parla la cristiana Prisca), e da uomini (parla Caifa, parla Erode, parla Tiberio, parlano i prefetti, i centurioni, i governatori romani, parlano Seneca e Afranio Burro), tutti coinvolti, più o meno consapevolmente, del cambiamento epocale che apporterà il cristianesimo, senza necessariamente estirpare il paganesimo, ma anzi accentuandone la comune visione dell’amore: l’amore della Venere del De rerum natura o della Gaia di Esiodo, che dà la vita; l’amore di Iesus, che dà la vita eterna; l’amore di cui parla Paolo, una nuova koiné dialektos per un mondo nuovo, fondato non più all’ombra delle aquile imperiali, ma della croce…