Celestiali squarci marini di cielo e di mare, azzurro, azzurro infinitamente azzurro. Quasi a costo di essere ripetitivo. Parthenope inizia così, con la nascita della protagonista, in acqua, nella baia di Napoli. Figlia dell’alta borghesia partenopea, la giovane Parthenope seduce tutti i viventi di sesso maschile che la circondano, fratello compreso. Costui, cioè Raimondo, soffre la bellezza della sorella, dalla quale è attratto, sino a una conseguenza tragica, che trasporta Parthenope dalla spensieratezza al dolore.
Celeste dalla Porta, nuova musa ventottenne di Paolo Sorrentino, non è solo bella, ma sa recitare (cosa non da poco, di questi tempi). Soprattutto, seduce: padre, fratello, amici di famiglia, preti e professori. Non tutti, beninteso, concludono, e l’incesto non è contemplato. Ma mentalmente, forse, sì.
In acqua si muore, in acqua si concepisce, anche se Parthenope sceglie di interrompere la vita che reca dentro di sé e che potrebbe fare rinascere la famiglia, tragicamente interrotta.
Risposte pronte, frasi ad effetto e ancora squarci di bellezza. Poi, una scena di sesso, volgarmente cruda e forse insensata. Inutile. Passiamo oltre. Comicità, speranze, simboli. Il tutto, però, velato da un senso di decadentismo, di tristezza congenita nelle illusioni dei personaggi. La concezione di sprecare una vita in nome dell’amore, la consapevolezza delle raccomandazioni universitarie, l’illusione del miracolo: Parthenope è un film soprattutto scabroso. Chissà cosa diranno i napoletani più ferventemente religiosi.
Ma perché rovinare oltremodo un film a modo suo bellissimo? Certo, la durata dello stesso mette a dura prova lo spettatore. Si lasci trascinare, dall’acqua.