Omaggio a Cristina Campo, morta il 10 gennaio 1977.

Cristina Campo – pseudonimo di Vittoria Guerrini – è stata una delle figure più elevate e luminose del Novecento italiano. Donna bella ed elegante, poetessa, saggista, traduttrice, è una voce che ha saputo coniugare il rigore intellettuale con una sensibilità mistica rara, muovendosi in quel territorio sottile e profondo dove la parola diviene preghiera e la poesia si fa ponte verso l’assoluto. Lei ha curato diverse traduzioni di testi dei Padri del Deserto e dei grandi Padri della Cappadocia, come Gregorio di Nazianzo, che fu un abilissimo poeta e teologo.

Nata a Bologna nel 1923, Cristina Campo crebbe in un ambiente colto e musicale: il padre era un eminente musicologo, e la casa familiare era un crocevia di artisti e intellettuali. La sua salute fragile la costrinse a una vita ritirata, ma questo isolamento divenne per lei un fertile terreno per coltivare un’intensa vita interiore. Nel silenzio e nella solitudine, come gli eremiti del deserto che tanto amava, Cristina trovò il respiro lungo della contemplazione, che si riflette in ogni suo scritto.

Questa donna di rara eleganza e sensibilità, amante della bellezza della liturgia, fu amica di grandi poeti come Luzi, Traverso, Turoldo, Bigongiari, Merini, Bemporad, Bazlen, Dalmati, Pound, Montale, Williams, Pieracci Harwell, Malaparte, Silone, Monicelli e Scheiwiller.

Tra i molti meriti di Cristina Campo, spicca il suo contributo alla traduzione della poesia dei Padri della Chiesa, un compito che richiedeva non solo una conoscenza profonda della lingua e del pensiero teologico, ma anche una capacità unica di cogliere e restituire l’aura spirituale che pervade questi testi antichi. Tradurre i Padri non era, per lei, un esercizio accademico: era un atto di amore, un gesto liturgico, una sorta di liturgia personale della parola.

Nei suoi scritti, Cristina Campo descriveva la traduzione come un’arte del trasfigurare. Tradurre significava – nel suo pensiero – “custodire il mistero”, rendendo comprensibili le profondità spirituali senza mai impoverirle. Di fronte ai testi di Gregorio di Nazianzo, Basilio il Grande o Efrem il Siro, la Campo si poneva come una pellegrina davanti a un santuario: con reverenza, con l’umiltà di chi sa che ogni parola è un sacramento da preservare nella sua pienezza.

La traduzione della poesia patristica, infatti, implica l’accoglienza di una visione del mondo che intreccia cielo e terra, tempo ed eternità. I Padri della Chiesa scrivevano in una lingua densa, intrisa di simboli e metafore, dove ogni verso è un affondo nell’infinito. Cristina Campo riuscì a rendere questa profondità con una grazia che non ha eguali, unendo la precisione filologica alla musicalità poetica. Le sue traduzioni non sono mai mere trasposizioni linguistiche: sono interpretazioni, rivelazioni di bellezza.

Ma qual era il segreto di questa alchimia? Forse, la risposta va cercata nella spiritualità che permeava ogni aspetto della vita e dell’opera di Cristina Campo. Per lei, la bellezza era una via di accesso al divino. In una lettera, scrisse: “L’anima vive di ciò che salva. E nulla salva, se non la bellezza”. Questa bellezza – terrena e celeste al tempo stesso – è il filo conduttore delle sue traduzioni. Nell’opera dei Padri, Cristina trovò una bellezza che non si esaurisce nel tempo, una luce che illumina ancora oggi chi si accosta ai loro testi.

Il lavoro di Cristina Campo non ha solo arricchito la tradizione letteraria italiana, ma ha anche riavvicinato i lettori contemporanei alla sapienza antica, facendola risuonare con una freschezza sorprendente. La sua voce ha reso percepibile quel canto eterno che i Padri intonavano, e che ancora oggi invita l’uomo a sollevare lo sguardo verso l’alto.

Cristina Campo è stata, in definitiva, una mediatrice tra mondi: tra l’antico e il moderno, tra l’umano e il divino, tra la parola e il silenzio. La sua arte della traduzione – così come tutta la sua opera – ci invita a riscoprire il valore della parola come luogo sacro, dove l’invisibile si fa visibile, e l’eterno si offre al nostro tempo fugace.

Lei, dei padri del deserto, scrive:

“I maestri cristiani del deserto fiorirono, esplosero in un attimo che durò tre secoli, dal III al VI dopo Cristo. Da poco Costantino aveva restituito ai cristiani il diritto di esistere, spezzando il dogma di Commodo, e sottratto con dolcezza la giovane religione al terreno meravigliosamente umido del martirio, alla stagionatura incomparabile delle catacombe. Questo significava, evidentemente, consegnarla a quel mortale pericolo che rimase tale per diciotto secoli: l’accordo col mondo. Mentre i cristiani di Alessandria, di Costantinopoli, di Roma, rientravano nella normalità dei giorni e dei diritti, alcuni asceti, atterriti da quel possibile accordo, ne uscivano correndo, affondavano nei deserti di Scete e di Nitria, di Palestina e di Siria. Affondavano nel radicale silenzio che solo alcuni loro detti avrebbero solcato, bolidi infuocati in un cielo insondabile. In realtà, la maggior parte di quei detti fu pronunciata per non rivelar nulla, così come la vita di quegli uomini volle essere tutta quanta la vita di «un uomo che non esiste». I detti e i fatti dei Padri furono raccolti in ogni tempo con estrema pietà perché, appunto, erano quasi sempre noci durissime, inscalfibili, da portare su di sé tutta la vita, da schiacciare tra i denti, come nelle fiabe, nell’attimo dell’estremo pericolo, e inoltre i Padri rifiutavano, per lo più, recisamente di scrivere. Furono raccolti in pergamene: greche, copte, armene, siriache. In quelle pergamene non furono perpetuati soltanto gli oracoli e i portenti dei Padri e dei loro discepoli, ma anche quelli di certi incogniti secolari che praticavano segretamente i loro precetti e, nascosti in quelle metropoli che i Padri abominavano, furono qualche volta maestri ai loro maestri.

Liliane Tami