A cura di Tommaso Berletti
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Uno sguardo alle origini
Un tempo, in Palestina, un uomo, chiamato Gesù detto il Cristo, dichiarò di essere il Figlio di Dio e la sua figura è unica e al contempo misteriora. Per noi è da considerarsi il Dio incarnato, per altri è solo un profeta esageratamente esaltato dai discepoli, per altri ancora solo un grande maestro di moralità. Altri ancora, nonostante prove certe dell’esistenza storica di Gesù Cristo, e talune evinte da fonti non cristiane, ne negano perfino l’esistenza. Per circa 300 anni il cristianesimo, probabilmente visto come un’espressione del giudaismo diventa, all’interno dell’Impero Romano legittimata e privilegiata. La stirpe cristiana non è una nazione come lo fu quella ebraica o quella egiziana, ma si raduna provenendo in maniera sparsa e disordinata dalle singole nazioni.
Gesù stesso non ha lasciato ai posteri nessuno scritto, nessun documento della propria presenza in terra. L’unica cosa rimasta è il gruppetto di discepoli a cui aveva dato il nome di “Chiesa”. La Chiesa è quindi sinonimo di cristianesimo e non c’è cristianesimo senza Chiesa.[1] Senza Chiesa e al di fuori di essa il Cristianesimo non può quindi esistere. Quando si diventa Cristiani, si diventa membri del corpo mistico di Cristo. [2]
Il Cristianesimo non può essere quindi ridotto ad un insegnamento morale, ad una teologia, a norme canoniche o alla liturgia. Il Cristianesimo è la rivelazione della figura di Cristo, il Dio fatto uomo attraverso la Chiesa.
La Chiesa è custode dell’insegnamento di Cristo e anche la continuatrice della Sua opera salvifica. Ma non è comunque la Chiesa che salva l’uomo per mezzo della grazia di Cristo, ma Cristo stesso salva l’essere umano attraverso la Chiesa.[3] Infatti l’opera di salvezza compiutasi con la Passione, Morte e Risurrezione una volta per tutte, non finisce mai di compiersi anche nel presente. Cristo dona se stesso sempre attraverso il sacramento dell’Eucarestia. La Chiesa è un oggi che dura in eterno: ecco svelato il motivo per cui negli uffici eccelsiastici risuona la parola “oggi”.
Attraverso la Santa Chiesa, il Cristiano non acquisisce solo gli insegnamenti di Cristo, ma partecipa pienamente alla vita, morte e risurrezione.
Bisogna leggere con devozione il nuovo testamento tenendo ben presente che la Chiesa fondata da Cristo non è qualcosa di radicalmente diverso dalla Chiesa di cui oggi siamo membri. Purtroppo però, mezzo secolo e più di insegnamenti errati e causati dall’ascesa a posizioni di vertice, soprattutto in Occidente, nella Chiesa, di personaggi con idee un tempo condannate con forza dalla Chiesa s ha portato a creare una contraffazione della Chiesa stessa che vogliamo comunque demolire. E non c’è modo miliore per demolire questa contraffazione se non conoscendone la storia e il pensiero teologico e filosofico quanto meglio possibile.
La Chiesa fondata da Cristo 2000 anni orsono, non è assolutamente qualcosa di diverso rispetto alla Chiesa di cui oggi noi siamo membri. Cristo si rivela a noi allo stesso modo in cui si rivelava ai suoi discepoli, la sua grazia, la sua forza salvifica non è diminuita.
Come scritto poche righe indietro, Gesù Cristo non ha lasciato alcuno scritto dietro di sé; i vangeli e il nuovo testamento stesso è stato redatto entro il compimento del primo secolo, quando si capì che era meglio mettere per iscritto ciò che fino ad allora era trasmesso oralmente. I primi tre vangeli, sono detti sinottici; mentre il quarto è stato scritto, forse a completamento degli altri tre e richiama l’attenzione del lettore sul significato teologico della vita e dell’insegnamento di Cristo. Addiritura le discordanze presenti nella narrazione di singoli episodi presenti ne’ tre vangeli sinottici ci rassicurano sul fatto che gli evangelisti abbiano scritto autonomamente i loro vangeli e che quindi non si siano messi d’accordo. Alcuni furono testimoni diretti di quanto Gesù operò e parlò; altri invece furono testimoni indiretti e scrissero per fissare su carta quanto gli era stato tramandato oralmente anni e anni dopo che i fatti si erano prodotti.
È curioso come la parola “Chiesa” sia menzionata una volta sola nei Vangeli.[4] San Matteo ci narra il momento della professione di fede di Simon Pietro ed è solo lì che viene menzionata la parola “Chiesa. In quell’occasione, Gesù interroga i discepoli domandando loro: “La gente chi dice che io sia?” e i discepoli rispondono: “Per alcuni Giovanni il Battista, per altri Elia, Geremia o qualcuno dei profeti”. Poi Gesù prosegue: “E voi chi dite che io sia?” E qui entra in scena San Pietro il quale confessa a nome di tutti, che Gesù è il Cristo, Figlio del Dio vivente. E qui il Signore risponde: “Beato te Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarrano contro di essa”. L’interpretazione più giusta che possiamo dare a queste parole è essenzialmente il fatto che la Chiesa è fondata sulla divinità di Cristo, come scrive Ilarion Alfeev, le cui parole di Pietro rappresentano la professione di fede, come dice altresì San Giovanni Crisostomo, in un omelia sul vangelo di Matteo, sulla fede della confessione di Pietro è fondata la Chiesa. In occidente, ha preso piede un’interpretazione distorta di questo brano evangelico per giustificare il ruolo del primato dei vescovi di Roma. Pietro infatti, nella sua prima lettera, afferma che la pietra angolare della Chiesa è Cristo stesso.[5]
La Chiesa delle origini è dunque la comunità dei discepoli che apprendevano la rivelazione dallo stesso Gesù Cristo, dallo stesso Verbo di Dio incarnato. L’assunzione della natura umana, non ha per nulla sminuito la divinità di Cristo, come diceva San Leone Magno nei discorsi sul Natale.
I discepoli di Cristo erano quindi la Chiesa che Egli radunò all’ultima cena e alla quale, sotto le specie del pane e del vino, donò il Suo Corpo e il Suo Sangue. È l’inizio della Chiesa come comunità eucaristica. Dopo la Risurrezione, in ottemperanza alle parole del Signore, gli apostoli si radunavano, il primo giorno della settimana, chiamato il giorno del Signore, a celebrare l’eucarestia.
Durante l’ultima Cena Cristo diede agli apostoli il precetto base di tutta la morale cristiana: Di amarsi gli uni e gli altri. Come io ho amato voi così amatevi gli uni gli altri. Da questo sapranno che siete miei discepoli[6]. Comandamento che emerge in tutta la sua forza anche nelle lettere di San Giovanni detto il teologo e anche apostolo dell’amore.
Gesù quindi ammaestrò gli Apostoli acciocché potessero trasmettere ai posteri il suo Vangelo, i suoi insegnamenti. Dobbiamo notare, anzi, è doveroso notare che l’aspetto centrale della predicazione apostolica non fu certo l’insegnamento morale o spiriturale di Cristo ma l’annunzio della sua morte e risurrezione, e fu proprio quest’ultima a conferire al cristianesimo l’unicità e la novità che ci permette di chiamare la nostra fede “Nuova Alleanza” allo stesso modo come fu chiamata “Antica Alleanza” il patto stipulato da Dio con gli Israeliti.
La Risurrezione aveva un tale significato da far ritenere vana la fede se Cristo non fosse risorto, come si evince dalla prima lettera di San Paolo ai Cristiani di Corinto.[7] Da questo passo si evince che se Cristo non fosse risorto, altro non sarebbe che un profeta tra i tanti che sono apparsi nella storia e noi saremmo ancora nel peccato. Però Cristo è risorto diventando primizia di quelli che sono morti; ha vinto la morte e così facendo ha aperto agli uomini la via della salvezza.
La Risurrezione di Cristo è il fatto centrale del vangelo, nonché il momento cruciale nella storia della Chiesa. Non è però stata riconosciuta da tutti. Similmente alla nascita, è passata inosservata. Nessuno ha visto Cristo levarsi dal sepolcro. Dio non volle mettere in piazza la Risurrezione del Suo Figliom ma fece in modo che questa fosse creduta dopo un conveniente cammino ascetico interiore capace di superare dubbi ed incertezze. Nessuna religione infatti ha mai potuto fornire una prova inconfutabile sull’esistenza di Dio. Neppure il Cristianesimo, dobbiamo riconoscerlo, c’è riuscito, o forse nemmeno l’ha mai cercata. I discepoli di Emmaus, non riconobbero Gesù risorto con gli occhi come li intendiamo, ma con gli occhi dell’anima. Nel momento in cui lo riconobbero egli sparì. Beati quindi coloro che crederanno pur non avendo visto.[8] Il Cristianesimo ha senz’ombra di dubbio lanciato una sfida al mondo che pretendeva giustificazioni logiche della fede. Ha lanciato una sfida all’intelletto umano, che è incline a dubitare anche dell’esistenza di Dio e tanto più del fatto che un uomo, fosse pure il Figlio di Dio, possa morire e risorgere. Ma come dice San Paolo, citato poc’anzi, il fatto centrale è proprio la risurrezione il fondamento della fede al punto che se così non fosse, la fede nostra sarebbe vana. Una fede che non è corroborata da alcuna prova tangibile, ma su cui si fonda la vita della Chiesa da quel momento fino ad ora e per sempre.
Poco prima di ascendere al cielo, Cristo da le ultime istruzioni ai discepoli affidando loro nel contempo una missione di predicazione e insegnamento, e comanda loro fare discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo insegnando ad osservare «tutto ciò che vi ho comandato». Per poter adempiere alla missione che Cristo aveva loro conferito, i discepoli avevano bisogno dell’intervento dello Spirito Santo che avvenne nel giorno della Pentecoste che eliminò loro i residui dubbi sulla risurrezione di Cristo e le ultime esitazioni sulla giustizia e le ultime necessità della missione che il Signore aveva loro affidato il giorno dell’Ascensione prima di salire al cielo. Nel giorno di Pentecoste, la comunità dei discepoli di Cristo era formata essenzialmente dagli Apostoli e da altri pochi individui. Un numero esiguo di persone che forse nemmeno arrivava al migliaio. La Chiesa ne aveva davanti di strada per diventare veramente universale, ossia cattolica.
La predicazione incominciò tra gli ebrei, nelle sinagoghe, nel tempio, nelle case private. La decisione di predicare anche ai pagani fu presa da Pietro il quale fu il primo ad insistere perché la circoncisione, come condizione necessaria per entrare a far parte della Chiesa, fosse abolita. Ma colui che più lavorò per l’evangelizzazione dei pagani fu l’apostolo Paolo di Tarso, che non era tra i discepoli di Cristo della prima ora e che anzi, dopo la resurrezione fu uno strenuo oppositore dei cristiani e un persecutore di primo rango. Egli teneva i mantelli a coloro che lapidavano Stefano. Paolo si convertì, come narrano gli Atti degli Apostoli sulla via di Damasco e da persecutore della Chiesa si trasformò in uno zelante difensore e predicatore. La conversione di San Paolo ha avuto per la Chiesa, scrive sempre Ilarion Alfeev, un significato non minore della Pentecoste. San Paolo terminò la sua opera a Roma morendo martire. La Chiesa lo celebra insieme a San Pietro come i due apostoli “protocorifei”[9].
Nell’insegnamento di San Paolo domina il tema dell’amore. Nessuna prova, dice, potrà allontanare il credente dall’amore di Dio.[10]
L’insegnamento di San Paolo è comunque profondamente cristocentrico. Il fondamento della predicazione paolina è la risurrezione ed è più che consapevole che ciò rappresenti una sfida tanto per la mentalità ebraica quanto per quella ellenista.
Queste prime pagine ci aiutano a capire cosa sia successo, secondo le fonti che abbiamo a disposizione subito appena dopo la Risurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo, e come il cristianesimo abbia cominciato a diffondersi. Da qui si suppone che una delle preoccupazioni degli Apostoli sia stata anche come rendere degnamente culto a Gesù Cristo. Sicuramente agli inizi, il giorno di sabato gli apostoli si recavano ancora alla sinagoga per poi, il giorno dopo il sabato, rendere culto a Gesù Cristo con la memoria della fractio panis.

La Liturgia della Chiesa: Lo sviluppo del Culto Eucaristico
Vi è un legame strettissimo tra la Teologia e la Liturgia; Padre Ioann Meyendorff nel 1988 in una relazione sull’immutabilità e mutabilità della liturgia, formulava tre principi che riportiamo integralmente:
- La liturgia esprime la tradizione della Chiesa; la confessione della fede ecclesiale nel tempo, nelle diverse culture e nelle diverse epoche. Talvolta può mutare ma resta sempre immutata nella sostanza. Noi siamo tenuti a celebrare la Liturgia in odo che rifletta sempre la sacra tradizione.
- La liturgia riflette l’unità della Chiesa; unità con l’eredità patristica del passato e l’unità con tutto coloro che ora confessano quella stessa fede ortodossa (cioè giusta) e cattolica (cioè universale).
- La liturgia è una testimonianza di fede cosciente: non deve evolversi staccandosi dalla teologia, dalla fese, dall’insegnamento e dall’esperienza dei Padri.
Qualora vi sia una frattura tra teologia e liturgia, questa frattura, ha un effetto negativo su entrambe. La teologia, se privata del suo originario nucleo liturgico, si trasforma in un’ arida scienza accademica avulsa dalla vita spirituale reale.[11] Siffatti libri teologici giaceranno intonsi nelle biblioteche, saranno aperti da qualche studente ma non hanno ripercussioni nella vita della chiesa.
Quando la frattura tra liturgia e teologia riguarda una frattura tra lex orandi e lex credendi, si ripercuote in modo estremamente negativo anche sullo sviluppo della vita liturgica. La separazione della liturgia dall’autentica tradizione può portare ad una mutazione liturgica tale da alterarsi profondamente la sostanza fino a renderla irriconoscibile.[12]
La liturgia cristiana nasce essenzialmente per adempiere al comando del Signore dato agli Apostoli durante l’ultima cena che va a perpetuarsi. La Fractio panis è il rito caratteristico del nuovo culto, il sacrificio della nuova legge che non ha nulla a che vedere con gli antichi riti sacrificali ebraici svoltisi nel tempio di Gerusalemme.
Il rito è di una semplicità estrema e non vi sono ancora formulari fissati. Si antepone talvolta un pasto in comune (un agape ndr), si collocano i pani e il vino su una mensa, chi presiede recita una formula ricalcando le parole pronunciate da Cristo stesso, si rompono i pani e si distribuiscono col vino agli astanti. Tale è il quadro liturgico primitivo tracciato dagli Atti degli Apostoli e da San Paolo. Col rito centrale del Sacrificio è associato un servizio eucologico derivato dalla liturgia della Sinagoga e fatto cristiano con l’aggiunta di elementi nuovi.
La descrizione più antica della Messa ce la dona S. Giustino e risale all’anno 155. La celebrazione del Divin Sacrificio è staccata dall’agape e riunita invece al servizio eucologico cristiano – sinagogale. San Giustino ci lascia due descrizioni della Messa. Una messa domenicale e quella con il battesimo nella notte di Pasqua. San Giustino ci dice che nel giorno del sole (ossia la domenica) tutti convergono in un luogo designato; leggonsi le memorie degli Apostoli (vangeli) o gli scritti dei Profeti; poi chi presiede tiene un discorso per ammonire o esortare all’imitazione; poscia ci si leva in piedi e si innalzano preghiere per noi tutti e per chi ha ricevuto la luce (il Battesimo) per ottenere la vita eterna. Segue il bacio di pace, poi la consacrazione; poscia i diaconi distribuiscono il pane e il vino consacrati e ne portano agli assenti. Questo è lo schema che seguivano tutte le comunità cristiane.
Roma e Alessandria possedevano, nel terzo secolo dei formulari canonici, mentre altrove vigeva ancora una specie di anarchia eucologica alla quale i Concili cercavano di porre fine.
Sarebbe riduttivo far dipendere l’origine della Sacra Liturgia dall’uomo in quanto l’elemento dogmatico del cristianesimo proviene da diretta rivelazione divina. La vita e l’attività della Chiesa dipende da Cristo che vive direttamente in essa.
Cos`è dunque la Sacra Liturgia? Innanzitutto è una scienza con i suoi canoni e le sue leggi ed è affine alla teologia positiva[13], che studia il culto cristiano per mezzo di distinzioni e classificazioni. Solo così possiamo giungere allo stipite comune di liturgie apparentemente differenti. Non si può comunque dubitare dell’origine comune delle liturgie orientali e occidentali.

La sacra liturgia si divide in:
- Sacramentaria, la quale origina riti essenziali e riti cerimoniali
- Salmodiale che è l’ufficio divino e dà origine a eortologia, innodia e musica religiosa; quest’ultima da origine a salmodia antifonica, responsoriale e direttanea
- Straordinaria o d’occasione che da origine a dedicazione delle chiese (ivi compresi altari e cimiteri), architettura, pittura e arti sacre (ad esempio icone). Indi si parla anche di consacrazioni o benedizioni di vergini, imperatori, e abbati.
- Funeraria.
Le fonti possono essere dirette o indirette.
Tra le fonti immediatamente posteriori agli apostoli troviamo:
- La didaché
- La prima lettera di Clemente
- La lettera di S. Ignazio
Tra le fonti del secondo secolo per le liturgie occidentali troviamo:
- S. Giustino
- Palinsesto di Verona,
- Tertulliano
Tra le fonti del terzo secolo troviamo:
- Il canone di Ippolito

Nel quarto secolo abbiamo praticamente formate le liturgie di cui abbiamo conoscenza ed evolute naturalmente nel corso dei secoli:
- Orientali antiochiene come la siriaca, la nestoriana di Persia e Mesopotamia (Anafora di Bickel del secolo VI), varie anafore, le catechesi di San Ciritto, le Costituzioni apostoliche, la liturgia greca & siriaca di San Giacomo, la liturgia di San Basilio, arcivescovo di Cesarea di Cappadocia, di San Giovanni Crisostomo, arcivescovo di Costantinopoli
- Orientale alessandrina come l’eucologio di Serapione, la liturgia greca attribuita a San Marco. L’orientale Alessandrina ha dato origine alle liturgie Copte di San Cirillo di Alessandria, San Gregorio Nazianzeno, San Basilio che a loro volta hanno dato origine alla liturgia in uso in Abissinia detta dei XII Apostoli.
- Latine: La liturgia romana che ha dato orgine alla liturgia milanese, gallicana, ispanica e celtica. La liturgia milanese invece ha dato origine all’uso di Aquileja e di Ravenna.
Far dipendere da Roma tutte le altre liturgie latine è un’approsimazione.
Noi ci occuperemo in questo scritto, in modo particolare della liturgia latina che ci concerne certamente in misura maggiore nonostante l’importanza delle altre liturgie orientali comunque non meno importanti.
Le fonti della liturgia latina sono gli antichi sacramentari le cui edizioni che ci sono giunte, non sono state esenti da rimaneggiamenti gallicani e/o locali.
- SACRAMENTARIO GREGORIANO: Trattasi di una raccolta di messe stazionali sicuramente anche anteriori a Gregorio Magno a cui Papa Adriano primo attribuì il nome “gregoriano”. Ometteva tutte le feste in cui non si celebrava la stazione che era la messa pontificale a cui prendeva parte il Papa in persona.
- SACRAMENTARIO GELASIANO: Raccolta liturgica romana importata nella Gallie (Francia ndr) dopo Gregorio Magno ma prima di Adriano 1. L’originale Romano è stato assai modificato e quindi occorre critica avanzata per rendere testimonianza circa l’uso romano. La compilazione è attribuita a Papa Gelasio
- MISSALE FRANCORUM: trattasi di un unico codice di cui ci sono giunti frammenti datato secolo VII conservato attualmente nella biblioteca vaticana. Comprende 11 messe di stile romano ma anche questo è stato manipolato da usanze gallicane soprattutto nel codex rubricarum.
- SACRAMENTARIO LEONIANO: È il più antico e più completo dei sacramentari ma assai disordinato. Alcune messe, ci riferisce il Liber Sacramentorum, redatto dal Cardinale Schuster, sembrerebbero ispirate alle ristrettezze e al dolore dei Romani durante l’assedio degli Ostrogoti, una colletta funebre si riferisce alla sepoltura di Papa Simplicio ( 483). La raccolta è anteriore a San Gregorio e sembra l’unica fonte romana genuina, quindi non manipolata e infarcita di usi non romani. Secondo certuni il collettore avrebbe redatto questo sacramentario a scopo bibliografico.
- ROTOLO DI RAVENNA: Non comprende che 40 orazioni romane in preparazione al Natale; è difficile determinarne la data che potrebbe risalire al tempo del Crisologo.
- ORDINES ROMANI: Trattasi di una raccolta importantissima di cerimoniali che permettono di seguire lo sviluppo della liturgia romana dal secolo VIII al XV.
Vediamo ora le fonti della liturgia gallicana:
- MISSALE GOTHICUM: trovasi nella chiesa di Autun e risale alla fine del secolo VII
- MISSALE GOTHICUM VETUS: fine del secolo VII, le undici messe scoperte dal Mone in un palinsesto del 760 – 781 appartenuto a Giovanni II Vescovo di Costanza.
- LEZIONARIO DI LUXOEUIL: VII secolo
- OMELIE DI SAN GERMANO DI PARIGI: Secolo VII
- MESSALE DI BOBBIO: sempre secolo VII
La liturgia ispanica o mozarabica invece ha lasciato fonti documentarie molto più numerose. Era il rito in uso in una cappella della cattedrale di Toledo. È stato manipolato con prestiti derivati dalla liturgia di Roma e quindi il messale e il breviario riprodotti dal Migne nella sua Patrologia non possono servire a scopo scientifico.
Veniamo ora alla liturgia di Milano (o Ambrosiana) le cui fonti più importanti sono:
- SACRAMENTARIO DI BIASCA: secolo X
- SACRAMENTARIO DI BERGAMO: secolo XI.
I monaci benedettini dell’abbazia di Solemes, hanno studiato assai minuziosamente l’antifonario ambrosiano e ne hanno curata la pubblicazione. Queste raccolte hanno una straordinaria importanza storica e ricordano gli ordines romani.
I sacramentari antichi contenevano dunque tutte le preghiere recitate dal sacerdote o dal vescovo non soltanto per la celebrazione della messa ma anche per l’amministrazione di tutti i sacramenti i quali sono comunque connessi con la azione eucaristica.
Vediamo infatti come le formule pel battesimo e la cresima facevano, oggi come allora parte della liturgia pasquale della veglia, mentre quelle dell’assoluzione facevano parte dei riti del Grande Giovedì Santo[14], le preghiere dell’estrema unzione che seguivano l’assoluzione degli infermi ad succurrendum, ante missam et viaticum, le sacre ordinazioni erano insieme alle cerimonie della stazione notturna a San Pietro per le quattro tempora, e le benedizioni nuziali facevano parte di un’appendice in cui si contenevano i formulari per le messe occasionali tipo appunto nuziali, funebri, dedicazioni di chiese, anniversari di consacrazioni presbiterali, vescovili ed erano ordinate in modo da dimostrare quanto l’eucarestia fosse il centro di tutto e che tutto il resto fosse coordinato per preparare l’anima a ricevere il Signore nel sacramento eucaristico.
Tutto il resto (introiti, lezioni, antifone e graduali) ne era escluso; erano parti destinate ai ministri inferiori. Quindi tutto quanto apparteneva al sacerdote nell’amministrazione de’sacramenti e che ora è spartito tra messale, rituale e pontificale era raccolto insieme nel sacramentario o liber sacramentorum.
Il Cardinale Ildefonso Schuster, nel suo Liber Sacramentorum da cui abbiamo tratto parte di codesta nostra esposizione così che nel nostro intento possiamo aiutare il cristiano a comprendere quanto avviene in Chiesa, ci dice che questo sistema era possibile a Roma o nelle grandi chiese episcopali e che un posto speciale nel presbiterio era destinato ai codici in modo da poterli avere a portata di mano. Ma immaginiamo per un istante una chiesa parrocchiale o una cappellania o anche una prevostura o una rettoria per modo di dire, un anziano sacerdote assistito da qualche chierichetto a far anche la parte dei lectores… Costui, per celebrare messa avrebbe bisogno di una biblioteca intera[15]. Ecco l’origine quindi del «missale plenarium» dell’epoca carolingia. Visto considerato appunto che la messa celebrata nelle chiese di cui sopra è una semplificazione estrema della liturgia stazionale celebrata dal pontefice, ecco il bisogno di un libro che contenesse ordinatamente, secondo l’ordine del calendario, tutte le messe senza avere bisogno di altri libri.
Ma la riforma del 1570 ad opera di San Pio V non fu comunque esente da lacune. Anzi, forse per la mancanza di materiale scientifico a disposizione in quel momento possiamo dire che è stata deplorevole la soppressione delle varie praefationes di cui erano ricchissimi il sacramentario leoniano e gregorianoi talché per ogni festa o domenica più importante aveva il proprio prefazio. Se ne sono conservati solo alcuni propri per avvento e quaresima, pentecoste, eccetera, in totale una decina ad onta che la tradizione delle praefationes proprie risale a Roma almeno al tempo di Leone I.
Vennero, con le eccezioni di Pasqua, Pentecoste, Corpus Domini, messe funebri, e per l’Addolorata, anche depennate tutte le sequenze, tropi e collette che troviamo in messali pre tridentini tipo quello di Aquileia. Nel messale monastico domenicano, ad esempio, troviamo una sequenza anche nella messa di Natale di cui riportiamo il testo per conoscenza, visto il disuso.
Laetabundus exsultet fidelis chorus.
Alleluia. Regem regum intactae profudit thorus:
res miranda ! Angelus consilii
natus est de Virgine;
Sol de stella. Sol occasum nesciens, stella semper rutilans,
semper clara. Sicut sidus radium, profert Virgo filium, pari forma.
Neque sidus radio, neque mater filio
fit corrupta. Cedrus alta Libani conformatur hyssopo, valle nostra.
Verbum ens Altissimi corporari passum est, carne sumpta.
Isaias cècinit, Synagoga meminit,
numquam tamen desinit esse caeca.
Si non suis Vatibus, credat vel gentilibus:
Sybillinis versibus haec praedicta.
Infelix propera, crede vel vetera:
cur damnaberis, gens misera?
Quem docet littera, natum considera:
ipsum genuit puerpera.
Alleluia.
Ci sembra strano che San Pio V, in quanto appartenente all’Ordine Domenicano non abbia conservato questa sequenza nella riforma del Messale romano.
Dopo aver dato al nostro caro lettore paziente alcune informazioni storiche, vediamo come si svolgeva, per quanto la storia ci abbia lasciato traccia, la preghiera nella Chiesa primitiva.
Gli usi degli ebrei alla sinagoga, fece sì che i primi fedeli dedicassero alla preghiera il mattino, il mezzogiorno e la sera e talvolta anche la notte per consacrare a Dio l’intera giornata e per onorare la Trinità dedicando alla preghiera le ore principali della giornata. La Laus perennis unisce la Chiesa alla Vittima Divina immolata per la nostra redenzione[16]. L’Eucaristia conservata perennemente in Chiesa dà idea di cosa perenne al Sacrificio incruento celebrato in Chiesa.
L’agape eucaristica delle origini veniva celebrata sul far della sera del sabato e protratta per gran parte della notte precedente la domenica. Iniziava la vigilia domenicale. C’è da notare che la Chiesa di Gerusalemme, rimase, fino alla distruzione del tempio ai riti e alle preghiere della sinagoga. Alla distruzione del tempio, i fedeli di Elia capitolina, reduci da Pella, si sentirono definitivamente liberi dall’obbligo della legge israelita e quindi sullo stesso piano dei fedeli della chiesa di Antiochia e delle altre fondate da San Paolo. Durante la predicazione, in ispecie tra i Gentili, gli apostoli ridussero ai minimi termini gli obblighi. Ma la fonte più abbondante per la conoscenza de’riti di quei primi tempi apostolici rimane comunque la Didach.
Sono consigliati due digiuni settimanali, il mercoledì e il venerdì, la domenica è consacrata alla sinassi eucaristica la cui descrizione, la più minuziosa giunta a noi ce la lascia S. Giustino. Per tanto alla domenica mattina presto, i fedeli si radunavano nel luogo convenuto. Qui si leggeva la scrittura, si cantavano le preghiere e vi era il sermone del vescovo. Tutto ciò disponeva l’animo dei fedeli a ricevere degnamente il sacramento eucaristico. Chi fosse stato assente, sarebbe comunque stato confortato dal Sacramento che avrebbero ricevuto per mano dei diaconi.
Secondo Clemente Alessandrino, la preghiera alle varie ore del giorno era in auge solo tra i fedeli più devoti.
È ad iniziare dal secolo VII che le spiegazioni rituali della messa diventano meno rari, nessun documento supera per importanza gli “ordines romani”. Quando non vi era la processione, il pontefice recavasi direttamente alla chiesa prescelta per la statio e nel secretarium, aiutato dalle prime dignità del palazzo apostolico, indossava i sacri paramenti nel mentre che vescovi, clero e monaci prendevano i loro posti. Quando tutto era in ordine, un suddiacono si affacciava alla porta della sacrestia chiamando “Schola”. Compariva allora innanzi al pontefice il parafonista[17] che annunziava al pontefice i nomi di coloro che avrebbero cantato l’epistola e il graduale.[18]
Ad un cenno del pontefice, un suddiacono avvisava il parafonista di intonare l’antifona d’introito. I sette diaconi quiondi entravano nel secretarium ad accompagnare il Papa il quale, appoggiandosi ai principali dignitari della corte lateranense, entrava processionalmente nell’aula. Prima di salire al presbiterio, il corteo si fermava alquanto onde permettere al pontefice di adorare una particella eucaristica riservata a tal fine da una messa precedente[19].
Attraversando il recinto in cui stava la Schola cantorum, il Papa saliva alla cattedra episcopale di fronte all’altare, scambiava il bacio di pace col vescovo ebdomadario, coll’arciprete e coi diaconi e mentre ad un cenno il priore della schola concludeva il salmo d’introito per mezzo della dossologia, egli faceva una breve orazione dinanzi all’altare, baciava la mensa, il libro dei vangeli e già era incominciato il canto del Kyrie Eleison. Poscia, il Papa intonava il Gloria in excelsis il cui canto era proseguito dai vescovi e dai presbiteri diventando una preghiera sacerdotale da semplice inno mattutino.
Dopo le orazioni collette, veniva recitata dal suddiacono una lezione tratta dall’antico testamento, indi il canto del graduale, la seconda lettura tratta generalmente dalle lettere paoline, poscia l’alleluia o il tratto, il canto del vangelo effettuato dal diacono, poscia il pontefice soleva commentare e spiegare al popolo le scritture.
A questo punto, catecumeni e quelli che erano stati esclusi dalla comunione a cagione del loro comportamento venivano invitati ad uscire. Le formule, oggi si sono conservate solamente nelle liturgie orientali ed in quella ambrosiana, ma il rito e la grande litania che a questo punto faceva incominciare la missa fidelium sono scomparsi nella liturgia romana. Pare comunque che nella prima metà del secolo VI, in una chiesa nelle vicinanze di Montecassino, il diacono, secondo narrazione di S. Gregorio, pronunciasse ancora la formula di esclusione degli scomunicati, ma fonti romane posteriori tacciono.
Frattanto che veniva preparato l’altare, il papa, accompagnato dai notai e dai primiceri e dai difensores, si appropinquava al recinto riservato all’alta nobiltà al fine di riceverne personalmente le offerte occorrenti al Santo Sacrificio. Lo seguiva l’arcidiacono che vuotava le ampule in un grande calice sostenuto dal suddiacono. Dopo gli uomini, le donne; il papa quindi si portava al matroneo a ricevere le offerte delle signore soffermandosi ai piedi della scala che conduceva alla tribuna onde accogliere anche quelle degli alti ufficiali della corte lateranense. Vescovi e presbiteri ricevevano intanto le offerte del popolo dalla pergula che chiudeva il luogo sacro riservato al pontefice. Così il sacrificio che stava per venire offerto, aveva veramente un carattere collettivo e sociale in quanto veramente tutti avevano concorso apportando gli elementi essenziali, il pane ed il vino.[20] Il pontefice stesso non era dispensato dal concorrere anche egli, per la sua parte, onde offrire col popolo il suo sacrificio; pertanto, all’orfanotrofio dei cantores lateranensi, a cagione di lor povertà, veniva concesso il privilegio di offrire la sola ampolla d’acqua che l’arcidiacono riversava nel calice in forma crucis.
In origine venivano letti i dittici[21] coll’oratio super nomina (usanza di provenienza gallicana) che a Roma, dal 410 trasportata prima della consacrazione.
Disposti invero sull’altare calici e oblate, mentre la scola ripeteva gli ultimi neumi dell’antifona ad offertorium, il papa, salito l’altare, dava inizio all’actio eucaristica propriamente detta. Vescovi e presbiteri prendono posto dietro al papa in doppia fila, i suddiaconi si sistemano presso i cancelli separanti la tribuna del clero dal popolo, e tutti rimangono ai loro posti inchinati fino alla fine del canone.
Poco prima dell’incipit del Pater noster, l’arcidiacono si accostava al pontefice e quando questi elevava in alto a vista popolo l’Ostia, recitando la dossologia finale, anche egli levava in alto uno dei calici presenti sull’altare.
Era la solenne ostensione dei sacri misteri comune anche alle liturgie bizantine e orientali in genere. Durante il medioevo, l’ostensione prima dell’ostia e poi del calice durante il racconto dell’istituzione non è che un doppione.
A questo punto, dall’ostia magna si distaccano delle particelle, poscia sono consegnate agli accoliti acciocché le rechino seco per consegnarle ai titolari delle loro parrocchie così da essere messe nel calice ad indicare l’identità del sacrificio e del sacramento che nutre e santifica il pastore e l’intero gregge.
L’ultimo saluto del papa al popolo prima di compiere la fractio panis simboleggiante la morte violenta della vittima divina, è “Pax Domini sit semper vobiscum”. Tosto, la pace invocata dal pontefice viene scambiata tra il clero, i nobili e il popolo mediante l’amplesso apostolico, l’osculum sanctum; l’arcidiacono lo riceve dal pontefice e lo ricambia col primo dei vescovi, gli uomini e le donne si abbracciano separatamente, mentre lo stesso vien fatto tra i nobili e le matrone nel senatorium e nel matroneum.
Considerato che la consecratio e il sacrificio sono già compiuti alla fine del canone, pertanto nel rito gallicano, i vescovi solevano benedire il popolo e chi non intendeva comunicarsi poteva andare. A Roma il papa lasciava l’altare e tornava alla cattedra da cui impartiva istruzioni al nomenclator, al sacellario, e al notaio del vicedomino, per gli inviti a desinare così alla propria mensa che all’altra allestita in suo nome. Il ricordo dell’agape era ancora connesso col banchetto eucaristico.
Intanto, vescovi, preti e diaconi che fanno corona al trono papale, procedono solennemente alla fractio panis (spezzano il pane presentato dagli accoliti) entro sacchetti di lino, deponendone particelle sulle patene, sin dai tempi di papa Sergio primo, la schola intona l’Agnus Dei.
Spettava al secondo dei sette diaconi di presentare al pontefice la particola per la comunione. Il pontefice ne distaccava un frammento che l’arcidiacono riponeva nel calice ansato da cui poi il pontefice sorbiva il sangue del Signore.
Deposto nuovamente il calice sull’altare, l’arcidiacono annunziava il luogo e il giorno della futura stazione. Terminata la comunione dell’alto clero, mentre i cantori eseguivano l’antifona alla comunione, il pontefice, i vescovi e i presbiteri distribuivano la comunione ai nobili e al popolo. I diaconi assistevano il pontefice e i vescovi, tra i presbiteri alcuni distribuivano il pane, altri ministravano i calici.
Terminata la distribuzione della comunione, il pontefice recitava la colletta ad complendum (attuale postcommunio), poscia un diacono congedava l’assemblea con la formula “Ite missa est”, cui il popolo rispondeva “Deo gratias”. Il corteo pontificio si disponeva a rientrare nel secretarium.
Precedevano sette accoliti coi candelabri accesi, un suddiacono col turibolo fumigante, indi il papa e seguivano vescovi, preti, monaci, schola, gonfalonieri e tutti gli alti ufficiali del patriarchio.
[1] Affermazioni del Vescovo Ilarion Trojkij & del Padre Georgij Florovskij
[2] Padre Florovskij ci dice quindi che il cristianesimo è esistito da subito come una realtà corporativa, come comunità. Essere cristiano significava e significa appartenere alla comunità
[3] Sempre Padre Florovskij ci dice che la Chiesa racchiude in sé, e insegna la dottrina, i “dogmi divini”; ci offre una regola di fede, i riti e le regole della pietà religiosa. La chiesa è anche qualcosa di incommensurabilmente più grande e non è solo una dottrina riguardo alla salvezza, ma è la salvezza stessa, compiuta una volta e per sempre dal Dio fattosi uomo. Cristo infatti, prima di tutto è il Salvatore, il Sovrano, il Sommo Sacerdote. Il Re dell’ Universo e Salvatore delle nostre anime
[4] Più precisamente in Mt 16,13-18
[5] 1Pt 2,4
[6] Gv 12, 34-35
[7] 1Cor 15,14-20
[8] Gv 20,29
[9] Esponenti più rappresentativi. Voce derivante dalla lingua greca.
[10] Rm 8,35-39
[11] La cosiddetta teologia professionale occidentale sia cattolica che protestante
[12] Nota del curatore : in buona sostanza quanto avvenuto in occidente in occasione della sciagurata riforma liturgica del 1970 che è andata ben oltre i dettami della “Sacrosanctum Concilium” il cui frutto primario sarebbe il messale del 1965 che in buona sostanza era ancora cattolico e ancora non alterato.
[13] Trattasi di metodo teologico sostenente la conoscibilità di Dio attraverso la ragione e il contatto con la realtà.
[14] In origine, al giovedì santo, venivano celebrate tre messe: quella per la riammissione dei peccatori che erano stati esclusi al mercoledì delle Ceneri, la Messa crismale in cui il vescovo, assistito dal proprio clero, consacra gli oli santi che servono per battesimo, cresima, estrema unzione e ordinazioni sacerdotali, e la sera l’ultima messa era quella che ancora oggi viene denominata «in Coena Domini»
[15] Il sacramentario, l’evangeliario, l’epistolario, l’antifonario, il responsoriale, oltre alla difficoltà di reperire qua e là le giuste orazioni (colletta, secreta, postcommunio), pericopi scritturali eccetera.
[16] Semper vivens ad interpellandum pro nobis.
[17] Voce greca che significa esclamatore
[18] Non era lecito cambiare nomi dopo l’annuncio sotto pena di esclusione dalla comunione per quel giorno.
[19] Usanza purtroppo perduta che stava a sottolineare la perpetuazione del Sacrificio fino al giorno della parusia finale, donec veniat.
[20] Ut quod singuli obtulerunt ad honorem nominis tui, cunctis proficiat ad salutem
[21] Nel Medioevo, portaimmagini liturgico con effigiate all’interno figure di santi o recante i nomi di persone vive o defunte raccomandate alle preghiere dei fedeli.