Tommaso Berletti

Dopo aver dato una panoramica sul messale romano, sull’Avvento e sul Natale fino alla festa della Teofania di Nostro Signore Gesù Cristo, è d’uopo addentrarci nel pieno del mistero pasquale partendo da questo tempo pre – quaresimale, ad onor del vero, in disuso dagli anni ’70 del ‘900 a causa della riforma del calendario e dei riti che ha portato all’eliminazione di elementi tradizionali sicuramente non trascurabili.

Il primitivo uso prettamente romano, secondo quanto conservato negli antichi lezionari, consta di una decina di domeniche[1] e le tre domeniche del tempo pre – quaresimale non erano ancora conosciute in quanto saranno istituite da Gregorio Magno.

La Domenica fra l’ottava dell’Epifania si celebra sul Celio la stazionale al titolo di Pammachio. L’ottava dell’Epifania ha un’unica messa che viene ripetuta identica tutta la settimana e ha un’origine relativamente tarda, se consideriamo che gli antichi lezionari romani prevedevano un prolungamento della festa di due o tre giorni. In origine, questa stazionale veniva celebrata nella Domus ove erano stati decapitati e sepolti i martiri Giovanni e Paolo. Il trasferimento alla domenica avvenne verso l’ottavo secolo causa disuso di questo rito in un giorno lavorativo. Il vangelo narra lo smarrimento di Gesù al Tempio, mentre l’introito, per influsso bizantino penetrato nella liturgia romana è tratto dagli Apocrifi d’Esdra a cui si aggiunge il salmo 99 (“Iubilate Deo omnis terra”) che viene usato anche all’offertorio.

I sacramentari romani ignorano completamente la messa dell’ottava dell’Epifania. Questo significa che questa messa venne redatta posteriormente riutilizzando del materiale tratto dal sacramentario Gelasiano. Qui si commemora un’altra Teofania di Gesù; ossia il suo battesimo. Gesù prende il posto dell’uomo peccatore e si umilia al Battista. In quel momento si aprì il cielo e venne proclamata la divinità di Cristo.

La domenica II dopo l’Epifania prevede la stazione a Sant’Eusebio presso il Cimitero di Via Merulana. Secondo il primitivo uso romano, le domeniche fino alla Quaresima, si contavano da Natale o dalla Teofania, e il capitolare di Würzburg ne enumera fino a 10. E quindi è lecito pensare che fino a Gregorio Magno non si conoscevano le tre domeniche pre – quaresimali.

In questa domenica, contempliamo il miracolo delle nozze di Cana.

Seguono le domeniche fino a Settuagesima che non hanno canti salmodici speciali ma ripetono quelli della terza domenica. Le ultime dimeniche dopo Pentecoste presentano la stessa anomalia. Tutto, compresa la redazione gregoriana dell’Antifonario lascia pensare che questo sia il vero uso romano del secolo VII.

Concluso il ciclo delle Teofanie, è giunto il momento di capire la storia del periodo che da lì ci porta a Pasqua. È scomparsa la gioia con cui abbiamo accolto Gesù Bambino per i 40 giorni del tempo di Natale che dobbiamo appunto, con cuore contrito, prepararci al trionfo della Risurrezione; momento in cui il Cristo ha vinto la morte, morendo in croce, per renderci partecipi della Sua vita immortale.

La Settuagesima, prima di queste domeniche pre- quaresimale appare a Roma tra le fine del secolo VI e l’inizio del settimo e viene menzionata nelle omelie di San Gregorio Magno (594 – 604). Le osservanze liturgiche arrivarono dapprima a Milano e da lì all’Europa occidentale tutta grazie ai Carolingi. In Inghilterra giunse verso la fine del VII secolo e l’Irlanda solo dopo il secolo IX. Dapprima senza digiuno, dappoi prescritto formalmente, dopo il secolo IX dai Concili carolingi.

Amalario ci narra che a partire da quella domenica veniva soppresso sia l’Alleluia che il Gloria in Excelsis. Dipendendo direttamente dalla data di Pasqua, questa domenica non può capitare né avanti il giorno 18 gennaio né dopo il 22 febbraio.

I profondi misteri contenuti in questo tempo in cui ci addentriamo.

Sant’Agostino ci dice che vi sono due tempi, nel suo commento al salmo 148: Uno che attraversiamo ora che è fatto di tentazioni e tribolazioni eterne e l’altro che sarà passato in sicurezza e letizia eterna. Il primo viene celebrato ante Pascham, il secondo, post Pascham. La Santa Chiesa ci addita due città: Babilonia, diventata simbolo di peccato, e Gerusalmme, diventata la Patria Celeste.

Come detto poc’anzi viene sospeso l’Alleluia e il Gloria in excelsis[2], mentre a Mattutino viene anche soppresso il “Te Deum”.

Come possiamo ben comprendere, la storia di queste tre domeniche per così dire pre – quaresimali è intimamente legata a quella della Quaresima che, dal secolo V cominciava la sesta domenica prima di Pasqua comprendendo i 40 giorni fino al Grande Giovedì Santo che è tradizionalmente considerato il primo mistero pasquale.

Sappiamo che la domenica non si digiunava e quindi i 40 giorni erano ridotti a 36 considerando anche il Venerdì Santo e il Sabato Santo. Questo portava le anime più ferventi ad anticiparlo. Questa usanza appare nel secolo V tanto che San Massimo di Torino la biasima[3] dapprima per poi approvarla verso il 465 nel sermone 36. Nel secolo VI, dalla Regole per le Vergini di San Cesario d’Arles si evince che il digiuno cominciasse una settimana prima della Quaresima. Il primo Concilio di Orléans del 511, il primo e secondo concilio di Orange (511 & 541) proibiscono di incominciare il digiuno prima della Quadragesima, mentre l’autore del Liber Pontificalis (520) segnala questa usanza di anticipare il digiuno. Fin qui l’istituzione della Quinquagesima. In seguito, il digiuno venne allungato di un’altra settimana, dando vita alla Sessagesima, la cui prima menzione la si evince dalla Regola di San Cesario di Arles. Ne parla anche il IV concilio di Orléans nel 541 per proibire le anticipazioni del digiuno. Da qui si giunge a Settuagesima di cui abbiamo parlato all’inizio. La stazione è a San Lorenzo. Il tema di questa domenica è quello dell’angoscia e della tribolazione il cui conforto è un’incrollabile fiducia nell’aiuto di Dio.

Per la Sessagesima la stazione è a San Paolo, e il tema della messa ricalca quello della domenica precedente. La parabola della semente funge da stimolo ad avere fede in Dio che saprà realizzare le sue promesse,  mentre a Quinquagesima la stazione è a San Pietro e la pericope evangelica ci presenta Gesù che predice la sua Passione, mentre il cieco di Gerico rappresenta tutta l’umanità che abbisogna di accostarsi a Gesù per la propria salvezza.

Interessante notare come il prefazio in uso in queste tre domeniche è quello della Trinità, mentre nel sacramentario Gregoriano ne troviamo uno proprio per ciascuna domenica.

Il rigore della disciplina del digiuno, attenuata in Occidente rispetto all’Oriente, attraverso dispense intervenute nella prassi generale e particolare, nel secolo XIII provocarono una specie di reazione mondana, ci dice il Righetti nel suo “Manuale di Liturgia”, che darà origine al “Carnevale”, manifestazioni di “addio alla carne” assai disdicevoli da cui un buon cristiano quindi deve stare alla larga a maggior gloria di Dio. Queste si instaurarono tra la quinquagesima e il mercoledì delle Ceneri e si svilupparono, ahinoi, a tal punto da penetrare altresì ne’ conventi e alla Corte Pontificia. Bernardino da Feltre, nel 1493 così si esprimeva: “ Dies carnis privii est festum carnalium et de lecardi, quae festum diabolum canonizavit. In cuius festi honore vanis vestibus induuntur sacerdotissae antichristi. Unde talis die est ille de quo 4 Reg. 10 sacrificate diem sollemnem Bahal.”

La Chiesa non oppose mai ai disodini carnascialeschi una specifica iniziativa come aveva fatto contro le usanze delle calende di gennaio, limitandosi, e spesso per bocca degli ordini mendicanti, a predicare esortazioni contro il peccato e sul dovere della penitenza.

La Quaresima è ispirata dall’esempio di Mosè ed Elia che digiunarono 40 giorni prima di essere ammessi alla visione di Dio oltre che da Cristo il quale, all’inizio della Sua vita pubblica, digiunò 40 giorni. Nella Chiesa è sul principio del secolo IV che appare un periodo di 40 giorni in preparazione alla Pasqua intesa non già come anniversario della Risurrezione, ma al triduo commemorativo della Sua immolazione sulla Croce, ossia di tutto il mistero pasquale. In Occidente, l’apparizione è tardiva, e la più antica attestazione la troviamo a Milano nonostante sia certo che dalla seconda metà del secolo IV era già consuetudine presso le maggiori chiese dell’Occidente. Non dobbiamo pensare che sorse d’un tratto, ma si collega ad una prassi penitenziale già in voga dal secolo II.

Sant’Ambrogio, parlando dei doveri cristiani in tempo di quaresima così delinea il programma della giornata del cristiano: «Indictum est ieiunium, cave ne negligas… Statim, meridianis horis, adveniendum est in ecclesiam canendum hymni, celebranda oblatio. Tunc utique paratus assiste, ut accipias monimentum, ut corpus edas Domini Iesu. »

Quindi, deduciamo che la Messa con la comunione degli assistenti, era prassi santificatoria dei giorni di quaresima al punto che la chiesa di Roma, prendendone coscienza, stabilì l’ufficio solenne stazionale. La stazione è quindi il servizio liturgico ufficiale celebrato dal Papa, che non aveva una chiesa propria, ora in quella ora in quell’altra chiesa che, dapprima era a suo libero arbitrio, dappoi fu regolamentata e segnata ne’ libri liturgici.

L’origine della messa stazionale va ricercata in quell’unicità del Sacrificio celebrato dal Vescovo e assistito da tutta la comunità che nella chiesa primordiale era regola assoluta. A Roma era il servizio ufficiale e i preti dei vari titoli, se non partecipavano, ricevevano il fermentum, ossia una particella del pane consacrato dal Papa che aggiungevano alle particelle consacrate alla loro messa quale simbolo di unità.

Il sistema stazionale non è una esclusività romana. Ad Antiochia già esisteva nel quarto secolo e nel sesto Severo ce ne parla nelle sue omelie. Egeria, alla fine del secolo IV ne parla per quanto concerne Gerusalemme. In occidente è menzionato per Ravenna, Milano, Pavia, Vercelli, Liège, Strasbourg, Köln, Paris…

Vediamo ora come si svolgeva il servizio liturgico stazionale, così come descritto nel I ordo Romano compilato nella prima metà dell’ VIII secolo. Attorno all’ora nona, tutto il popolo col clero si radunava nell chiesa designata. Il Papa era accompagnato dal clero palatino. Quanto tutti erano pronti, il Papa recitava una colletta, quindi la massa dei fedeli, preceduta dalla Croce stazionale e seguita dal Pontefice e dai Chierici che portavano le suppellettili necessarie al Sacrificio al canto di salmi, antifone e litanie dei santi muoveva verso la Stazione. Qui il Pontefice celebrava la messa e il clero titolare concelebrava; clero e fedeli venivano comunicati così da porre termine al digiuno per quel giorno. Dopo la Comunione, l’arcidiacono comunicava il luogo della stazione del giorno dopo. Le stazionali rimasero in vigore almeno fino all’esilio avignonese.

San Carlo Borromeo, verso il secolo XVI, nel riprendere le stazioni quaresimali, ottenne da papa Gregorio XIII facoltà di trasferire alla Chiesa di Milano le indulgenze concesse a Roma.

Il lunedì successivo alla prima domenica di quaresima, in un periodo in cui la chiesa ancora non conosceva il periodo pre quaresimale, nella fattispecie la quinquagesima, il lunedì successivo alla prima domenica di quaresima, stazione a San Pietro in Vinculis, vi era l’inizio della penitenza canonica a cui dovevano sottoporsi i penitenti pubblici, con una cerimonia in pompa magna presieduta dal Vescovo dinanzi alla comunità dei fedeli. Il trasferimento al mercoledì oggi detto “delle ceneri” lo abbiamo dall’introduzione della domenica di quinquagesima. Tertulliano, San Cipriano, Sant’Ambrogio, e tanti altri Padri accennano alla penitenza in cinere et cilicio. La Chiesa, nel IV e V secolo perfezionò il rito accompagnando il gesto tradizionale dell’imposizione delle mani con la cenere e il sacco per segnare maggiormente la punizione di coloro che avevano commesso peccati gravi e notorii.

Nel secolo IX l’imposizione delle ceneri era ancora un rito penitenziale indipendente dalla messa e introdotto nella liturgia ufficiale nel secolo XII.

Quindi il Papa imponeva le ceneri nel titolo di Anastasia, quindi dopo il “concede”, ci si avviava a piedi, cantando salmi e antifone verso la basilica di Santa Sabina all’Avventino per celebrarci la stazione.

Le riforme di San Pio X e di Giovanni XXIII hanno messo ordine nei formulari delle messe delle ferie quaresimali cosicché ogni feria ha il suo formulario proprio di messa. Agli inizi di questo periodo penitenziale non fu così e ne è prova la Chiesa Orientale in cui vige la prassi che tutte le ferie di quaresima siano aliturgiche. Celebrano infatti il rito dei presantificati il mercoledì e il venerdì. Dai tempi di Tertulliano si credeva vi fosse incompatibilità tra il digiuno e la celebrazione del Divin Sacrificio. In occidente, solo nel rito ambrosiano è rimasta l’usanza del venerdì aliturgico. A Capua erano liturgici, nel secolo VI solo il mercoledì e il venerdì, mentre successivamente a Napoli si celebrava anche il lunedì.

Per quanto concerne Roma, da una missiva di Papa Innocenzo I a Decenzio di Gubbio, si evince una prassi simile, mentre ancora al tempo di San Leone Magno, nel martedì della settimana santa non vi era alcuna celebrazione eucaristica. Fu l’istituzione del sistema stazionale che estese la sinassi eucaristica a quasi tutte le ferie di quaresima, tranne per due sabati (il primo precedente la prima domenica di quaresima, il secondo, quello precedente la domenica seconda di passione o delle palme) durante il quale il pontefice distribuiva le elemosine. Osserva il Cardinale Schuster che probabilmente gli occidentali, a Roma soprattutto, abbiano voluto dissimulare sotto un’apparente gioia, i rigori della penitenza.

Per quanto concerne il contenuto dei formulari della messa sono stati composti al fine di rinnovare spiritualmente fedeli e penitenti per mezzo della mortificazione della carne e la compunzione del cuore per preparare entrambi a celebrare degnamente il Mistero Pasquale[4]. Non dimentichiamo che occorreva anche preparare i catecumeni a ricevere il Battesimo nella vigilia di Pasqua. La preoccupazione per i catecumeni traspare nei testi delle Messe istituite per gli scrutinii battesimali.

Tranne che nella Chiesa di Roma, le sei domeniche quaresimali hanno un nome. Tale nome è desunto dalla pericope evangelica letta durante la Messa. Vediamo quali sono:

Milano Roma 
Prima DomenicaDe Jejunio _ChristiPrima DomenicaDe Jejunio _Christi
Seconda DomenicaDe SamaritanaSeconda DomenicaLa Trasfigurazione
Terza DomenicaDe AbrahamTerza DomenicaL’indemoniato
Quarta DomenicaDe Coeco natoQuarta DomenicaLa moltipl. dei pani
Quinta DomenicaDe LazaroQuinta DomenicaAffronti a Cristo
Sesta DomenicaDe ramis olivarumSesta DomenicaDe ramis palmarum

L’ultima fase della quaresima è quella della cosiddetta “settimana de Lazaro” o “di Passione”. Il tempo di passione presenta due interessanti caratteristiche: Si omette il salmo 42 all’inizio della Messa  e si omette anche nell’Ufficio il “Gloria Patri” nell’introiti e responsori. Un’altra caratteristica è la velazione delle croci e delle immagini che deriva probabilmente da un’usanza antica (attestata nel secolo IX) di stendere all’inizio della quaresima un gran velo dinanzi all’altare detto “panno della fame” in Germania (Hungertuch) di cui si parla anche nelle consuetudini di Montecassino. Probabilmente, quando cessò l’usanza dell’espulsione dei pubblici penitenti dalla Chiesa, e con le ceneri imposte si veniva tutti messi spiritualmente in penitenza, si volle nascondere la vista del Sancta Sanctorum fino alla Pasqua e quindi fino a riconciliazione.

Santa Maria degli Angioli, Lugano ( Bernardino Luini)

La Settimana Santa

La settimana Santa o Grande[5] si è sviluppata dal digiuno del Triduum Pasquale. In tempi apostolici solo il venerdì e il sabato erano solennizzati. Verso il 247, Dionigi d’Alessandria, attestava che taluni stavano tutti e sei i giorni senza toccar cibo tanto che Sant’Atanasio, nel 329 insiste sul digiuno in quesi santi giorni simbolo della creazione del mondo. Il giovedì Santo, in origine vi erano due messe: al mattino la riconciliazione dei penitenti, mentre la sera, nell’anniversario dell’Istituzione Eucaristica. La messa crismale della consacrazione degli Oli venne introdotta più tardi.

La più antica descrizione delle cerimonie della settimana maggiore secondo la liturgia papale la troviamo nel XXIII ordine romano. Si nota l’assenza della benedizione del cero e della messa dei presantificati e dovrebbe quindi risalire alla prima metà del secolo VIII.

Per facilitare la partecipazione del popolo ai riti, gli imperatori romani cristiani, imposero per legge il riposo dei servi e la sospensione nel foro dei procedimenti civili e penali. San Giovanni Crisostomo in un’omelia vi fa cenno così: «Non nos solum hanc hebdomadam veneramur, sed imperatores orbis nostri, nec perfunctorie, ipsam honorant, silentium indicentes omnibus publica urbium negotia tractantibus, ut curis vacui, hoc omnes dies spirituali cultui prosequantur. Ideoque fori ianuas clauserunt. Cessent, inquiunt lites, carnificum manus». Legge poi confermata da Giustiniano.

La liturgia romana, fin dal secondo secolo, commemorando il ciclo della Grande settimana Santa, ha adottato, come già nel canone della messa[6], la cronologia che viene offerta dai vangeli sinottici che è in parziale contrasto con il racconto secondo San Giovanni. Secondo certuni, l’ultima cena sarebbe avvenuta il martedì e non il giovedì seguendo anche quanto narrato da alcuni scritti apocrifi; ma questo a nostro avviso pare ininfluente.

Il monte degli ulivi

De Dominica II passionis seu in palmis

Il più antico titolo romano di codesta domenica è «De Passione Domini» come ci ricordano i Padri latini del IV – V secolo. Più tardi venne associato quello orientale dei rami di palme. In Palmis appunto come lo si trova nel Sacramentario Gelasiano. La liturgia di codesta domenica è caratterizzata dall’unione di due riti un tempo distinti.

  • La benedizione e processione delle palme in omaggio al Cristo e conseguente professione pubblica della Sua divina regalità
  • La commemorazione solenne della Passione e Morte del Cristo.

Questi due riti rappresentano quindi le due maggiori componenti del Mistero Pasquale.

Vediamo ora di dare una descrizione anche storica dei riti.

La benedizione e processione delle palme va ricercata nel IV secolo in relazione alle consuetudini della Chiesa di Gerusalemme. Con questa entrata trionfale del Cristo in Gerusalemme viene compiuta la profezia di Zaccaria.

Egeria ci narra che nella domenica precedente la Pasqua, verso la settima ora, il popolo insieme al Vescovo si riuniva sul Monte degli Ulivi. Il rito principiava col canto di antifone e inni intercalati da letture scritturali e preghiere. All’ora undecima, letta la pericope evangelica narrante l’ingresso di Gesù in Gerusalemme, tutti sorgevano e impugnando rami di ulivo e palma, sempre cantando inni e salmi alternati al “Benedictus qui venit in nomine Domini”, scendevano processionalmente col Vescovo verso la Chiesa dell’Anastasi ove concludevasi la funzione coll’ufficio del Lucernario. Nessun accenno quindi alla benedizione dei rami.

Non si riesce troppo a comprendere come e quando il rito sia passato in Occidente. Le prime avvisaglie le troviamo in Spagna grazie a S. Isidoro di Siviglia (messale Mozarabico) e nel Messale di Bobbio le cui formule hanno un punto di contatto comune col rito bizantino e mozarabico.

Nei rituali pre riforma del 1955 riguardante le celebrazioni della Grande Settimana Santa, il rituale della benedizione delle Palme comportava una “Missa Sicca”[7], seguita da 5 orazioni costituenti la benedizione vera e propria delle palme e dalla processione. Al ritorno alla Chiesa, la processione trova la porta chiusa fino a che il suddiacono crucifero non la percuote con la punta della croce astile. Si entra in chiesa cantando il responsorio “Ingrediente Domino” e incomincia la messa. Questo rituale del percuotere la porta, nonostante contenuto nel Pontificale Romano del secolo XII, viene inserito nel Messale Tridentino solo nel 1604 sotto Papa Clemente VIII.

Particolarità della Messa di questa seconda domenica di Passione è la lettura del Passio da cui, secondo l’”ordo hebdomadae sanctae” del 1951 ha estromesso quella parte dell’istituzione eucaristica.

Delle prime tre ferie della Grande Settimana Santa, quella stazionale del mercoledì è la più antica. A Gerusalemme, si evince da Egeria, al popolo adunato nella basilica dell’Anastasis, si leggeva la pericope evangelica narrante il tradimento di Giuda. A Roma la stazione era a Santa Maria Maggiore. Anticamente, questa feria doveva essere aliturgica come si evince dagli “ordines romani”. Infatti all’adunanza all’ora terza in Laterano, erano prescritte solo le Orationes solemnes oggi in uso esclusivo al Venerdì Santo. La consacrazione eucaristica era riservata alla Stazione vespertina a Santa Maria Maggiore verso l’ora ottava. La lettura del Passio secondo San Luca si ha verso il secolo VIII in luogo della pericope primitiva sulla lavanda dei piedi e sul tradimento di Giuda.

I libri liturgici appellano il Grande Giovedì Santo come “feria V in Coena Domini”, titolo già comune in Italia e in Africa all’inizio del secolo V.

In origine, a Roma, questo giorno, come gli altri giovedì di quaresima, era aliturgico. La vacanza liturgica della mattinata, venne presto colmata con il rito della riconciliazione dei penitenti pubblici; condicio sine qua non acciocché potessero partecipare all’eucaristia pasquale. Alla fine del secolo IV il rito è già attestato a Roma e Milano. Intorno alla medesima epoca o poco dopo, l’introduzione della Messa Vespertina “in Coena Domini”. In Oriente, in Gallia e in Africa, sotto S.Agostino era già in uso da tempo; quindi poco verosimile che a Roma fosse sconosciuta. Forse più tardi è stato inserito il rito della consacrazione degli olii, anticipato al giovedì, dove prima aveva luogo, secondo la “Traditio”, la notte di Pasqua in cagione della benedizione del Fonte e della Confermazione ai neofiti. È comunque assai probabile che i due riti fossero dapprima delle funzioni aliturgiche, mentre fu in Gallia che vennero inquadrati in due formulari di messa, un secolo più tardi, trasmessici dal Sacramentario Gelasiano.

Dal secolo XII, l’ufficio notturno del giovedi, del venerdi, e del sabato santo, aveva il nome di “tenebrae” o “matutina tenebrarum” in quanto finiva a lumi spenti. Dal Caerimoniale Episcoporum si evince che vada principiato “hora vigesima prima vel circa”, ma in origine si recitava “media nocte surgendum est” come si evince dai più antichi ordines romani. L’ordine Romano XIV prescrive che venga anticipato la sera anche per facilitare gli interventi del popolo. Per quanto concerne l’ufficio divino, notiamo che in questi ultimi giorni della settimana santa si discosta assai dalla forma comune. Vengono soppressi i versetti introduttori, il Gloria Patri a fine salmi, il capitolo a tutte le ore, il “Tu autem” alla fine delle lezioni, e il responsorio breve delle ore minori. Ciascuna ora quindi termina col Pater Noster preceduto da una speciale antifona esaltante, malgrado i dolori della passione, la suprema signoria di Cristo. Pertanto, dall’ufficio del triduo sacro, possiamo notare che non è altro che la forma più antica dell’ufficio romano. Le formule introduttive furono ammesse da S. Gregorio Magno; gli inni non vennero adottati prima del secolo XII, mentre la distribuzione delle letture nei tre notturni è quella stessa che S. Benedetto ricorda nella sua Regola. L’omissione del “Gloria Patri”è pure consuetudine della Chiesa di Roma. Infatti questa aggiunta pare propria di alcuni monasteri della Gallia, come lasciatoci scritto da Cassiano. Il “Pater noster” senza colletta ulteriore corrisponde all’antico uso romano.

In questo tempo, come ci ricorda Amalario e poscia Durando, “a completorio sine a vespera qua Dominus traditus fuit, campanarum silentium inchoatur; alii, ad primam huius quintae feriae et non ulterius pulsant campanas, fit tamen signum cum tabula”, non vengono usati i campanelli, ma la tabula. L’uso cominciava dopo il “Gloria in excelsis” della messa in Coena Domini.

In origine, il grande giovedì santo, venivano celebrate 3 messe.

La prima era quella per la riconciliazione dei penitenti al temine della loro excomunicatio. Esisteva sul finire del secolo IV a Roma e a Milano. Era compiuto a Roma dal Papa in Laterano, mentre nelle cattedrali era compiuto dal vescovo; facoltà estesa anche ai Rettori delle Chiese titolari.

Da principio il rito fu autonomo, ossia indipendente dalla messa. La prima menzione di una messa mattutina in coena Domini mane la troviamo nel lezionario redatto da Vittore di Capua (546-7) e nei libri liturgici napoletani. Decadde nel secolo VIII col decadimento della penitenza pubblica

L’uso di un olio sacramentale rimonta probabilmente all’evo apostolico. San Basilio lo afferma, S. Giacomo nella nota sua lettera ne parla. Possiamo supporre che lo benedicessero in quanto non sconosciuto nel rituale ebraico. LA benedizione si presentava come un semplice rito autonomo che si effettuava immediatamente prima del battesimo; e questo fin oltre al secolo V in occidente. Ad Alessandria invece il rito era associato alla messa del giorno. Desumiamo questo da una lettera di Papa Leone I nella quale, accennando alla morte del vescovo di Alessandria sopravvenuta al giovedì Santo mentre si accingeva a celebrare, scrive: “Intercepta est sacrificii oblatio defecit Chrismatis santificatio”. Difficile, se non impossibile dire quando il rito passò in Occidente, probabilmente adottato dai Galli dapprima l’uso alessandrino. L’ordo romano XI compilato verso il 600 suppone che nella notte di Pasqua il Papa utilizzi il crisma consacrato due giorni prima. Consacrazione avveniva ancora fuori dalla messa.

La terza messa, sero, in coena Domini, secondo il sacramentario Gelasiano si presenta senza la parte didattica. Hodie non psallitur dice il sacramentario. L’ordo papale di Chavasse (secolo VIII) fa principiare la messa all’offertorio. Il motivo dell’assenza della parte didattica ci è sconosciuto. L’unica congettura che è possibile fare è che forse trattasi del resto di quella liturgia apostolica in cui le parti non erano ancora saldate insieme. Comunque sotto Gregorio II se non sotto Sergio I la Messa fu completata della parte didattica per servire alla prassi delle Chiese non cattedrali o monastiche il cui risultato fu un formulario eclettico che troviamo nel Sacramentario Gregoriano – Adrianeo e poi passato nel messale romano.

Durante questa terza messa, vengono consacrate due ostie, una delle quali conservata per la Messa dei Presantificati, unico caso in occidente, che sarà celebrata il Venerdì Santo, “in quo non conficitur Sacramentum”.

Il Triduo Pasquale

“Parasceve Dominus Noster Jesus Christus crucifixus est”. Così l’annuncio nel martiriologio. Tertulliano lo chiama primitivo dies Paschae. Prassi unanime sia in oriente che in occidente era quindi un giorno aliturgico. In Spagna verso il secolo VII taluni giunsero perfino a tenere chiuse le chiese senza celebrare alcuna commemorazione. Prassi sconfessata dal Concilio di Toledo IV.

La liturgia romana fin dal secolo V fissa la stazione di parasceve a Santa Croce in Gerusalemme. Comprendeva il seguente programma:

  1. servizio ecologico
  2. adorazione della Croce
  3. la messa dei pre santificati

Il servizio ecologico è composto da letture preghiere e canti ed è concluso dal formulario delle “orationes solemnses”. Questo primo servizio rappresenta senza ombra di dubbio l’arcaico tipo di liturgia proprio occidentale dei giorni stazionali durante i quali non veniva celebrata l’eucaristia.

Le fonti più antiche ci indicano la seguente struttura:

  1. prostrazione del celebrante e del clero sub silentio
  2. prima lettura
  3. Tratto “Domine audivi”
  4. seconda lettura
  5. Tratto “Eripe me Domine”
  6. terza lettura
  7. Passio Domini nostri Jesu Christi secundum Johannem
  8. Orationes solemnes.

Le ultime orazioni rendono superflua ogni altra formula di preghiera.

Il sacramentario gelasiano antico introduce, in analogia alla messa, dopo le letture due orazioni[8].

Fino al secolo VII fu l’unico servizio  che aveva luogo al Venerdì Santo e secondo l’uso delle Chiese titolari Romane cominciava verso l’Hora nona concluso il digiuno.

Il rito seguente dell’adorazione della Croce, venne aggiunto al precedente ed introdotto a Gerusalemme dopo l’inventio crucis del tempo di Costantino. Questo rito è stato probabilmente introdotto a Roma da Pontefici di origine Greca forse è anteriore alla festa dell’esaltazione della croce. Si notano molti caratteri di derivazione bizantina. Nell’OR 23 troviamo la più antica descrizione della cerimonia romana.

Verso l’ottava ora, il Papa scende dal Patriarchio lateranense e a pie’ scalzi, insieme con i ministri, si avvia a Santa Croce processionalmente. Il salmo 118 viene antifonato con “Ecce lignum Crucis” e viene portato anche un turibolo fumigante, mentre un diacono porta la reliquia della Croce. Dopo il canto del Passio e le Ireniche, il Papa saluta il popolo e torna processionalmente in Laterano. L’ordo annota esplicitamente che “Apostolicus ibi non communicat nec diaconi”, ma se tra il popolo qualcuno vuole comunicarsi, può farlo “de capsis de sacrificio quod feria quinta servatum est”. Sostanzialmente questa usanza viene riportata nel Gelasiano.
La funzione del grande venerdì Santo si conclude con la celebrazione, unico caso in occidente, della messa detta dei Presantificati. Ci si comunica infatti con le Sacre Specie all’uopo consacrate durante la Messa in Coena Domini del grande giovedì Santo. Il Duchesne, riprendendo Tertulliano le mette in rapporto ad antiche sinassi liturgiche che si chiudevano con la Comunione. Oggi, in oriente, ci si astiene dal celebrare la Messa in quaresima tranne il sabato e la domenica e si supplisce con la messa dei Presantificati richiamando all’uopo un canone del Concilio di Laodicea e di quello di Costantinopoli. Anticamente, il grande Venerdì Santo, ci si asteneva anche dal comunicarsi. La “Peregrinatio” ne tace; sconosciuto anche al rito greco ed ambrosiano. Nel secolo VIII, secondo Amalario e l’OR XXIII nelle chiese officiate dal Pontefice nessuno del clero riceve la comunione. Lo stesso OR dice che il popolo la faceva nei Titoli dove l’uso bizantino si era fatto sentire. Il Thibaut sostiene che le prime tracce di una Messa dei Presantificati s’incontri in Antiochia verso la seconda metà del secolo V.

Il sabato Santo è sempre stato, sia a Roma che in Oriente un giorno aliturgico che escludeva qualsiasi servizio anche eucologico.

Prima di procedere ad illustrare i riti della Veglia Pasquale e della Messa di Pasqua, pare d’uopo dedicare qualche riga alla questione della data di Pasqua. Fu questa la prima grande controversia del mondo cristiano. Fino al primo secolo la si celebrava dopo la Pasqua giudaica, ma non si aveva una uniformità di data. Due usi erano in vigore; quello asiatico e quello romano. In Asia minore veniva celebrata la sera del 14 del mese di Nisan in qualunque giorno essa cadesse e quindi in domenica cadeva solo periodicamente. Le chiese occidentali invece, più ligie ai racconti evangelici, facevano in modo che la Passione cadesse in venerdì e la Risurrezione in domenica; ma così facendo il venerdì a volte coincideva a volte seguiva il 14 Nisan.

Ad appianare questa e altre discussioni di cui non parliamo per non appesantire troppo la lettura, ci pensa il concilio di Nicea del 325. Non ci è stato tramandato un canone formale ma due lettere; rispettivamente dei Padri di Alessandria e dell’imperatore Costantino.

Da codeste lettere e dalla narrazione di St. Atanasio si evince chiaramente quale fosse il pensiero scaturito da quell’assise conciliare:

  1. La Pasqua cada sempre in Domenica
  2. Che non venga mai celebrata il giorno di quella giudaica
  3. Che la data cada alla prima domenica dopo il primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera

Secondo quindi questi presupposti, in occidente la Pasqua può oscillare in una domenica tra il 22 marzo e il 25 aprile.

L’ultima cena – Chiesa di Ponte Capriasca ( Ticino)

La domenica di Pasqua – In nocte sancta

La notte santa viene prefigurata nell’antico testamento quando Iddio guidò gli israeliti fuori dall’Egitto sottraendoli a schiavitù. Questo, con la Morte e Risurrezione di Gesù aveva assunto realtà e valori nuovi di redenzione e salvezza.

Il programma liturgico della Veglia Pasquale contempla 5 distinti riti:

  1. Benedizione del fuoco nuovo
  2. Benedizione del Cero Pasquale
  3. L’ufficio vigilare
  4. Il battesimo dei catecumeni (assente quindi nei riti monastici)
  5. La Messa in nocte sancta.

I primi due sono estranei all’ordinamento romano primitivo e compaiono dapprima nel OR X del secolo XII. Il formulario piano della benedizione del cero la troviamo menzionata per la prima volta nel Missale Gallicanum del secolo VII sotto il titolo “Benedictio Caesae S. Augustini Episcopi quam cum adhuc diaconus esset, cecinit”. Ma l’Exultet non è opera sua e pare risalga al secolo V. In principio, il cero, al termine della Vigilia Pasquale era rotto e i frammenti distribuiti ai fedeli come sacramentale, nel secolo X avveniva alla domenica in Albis, poi l’uso di tenerlo accento fino al termine del canto del Vangelo il giorno dell’Ascensione.

Nell’uso romano, vengono lette XII prophetiae seguite da orazioni. In antichità venivano espresse sia in latino che in greco, usanza fino al secolo XV. Più tardi il numero subì delle oscillazioni tra 4 e 8. In Gallia erano 4. Quattro lo sono nel rito proprio dell’ordine domenicano. Poscia, il battesimo dei catecumeni, mentre la maggior parte del popolo rimane in chiesa, non essendoci posto nel battistero, col clero inferiore a cantare le litanie, e quindi la Messa. In origine ai semplici sacerdoti, solo in questa occasione era permesso di cantare il Gloria in Excelsis. Secondo l’antica usanza, dopo la comunione del celebrante, si cantava pro vesperis il salmo 114 con l’antifona propria Vespere autem Sabbathi. In conclusione il canto “Regina caeli laetare alleluja” fino a Pentecoste

Per quanto concerne la messa del giorno di Pasqua, degno di nota vi è solo, prima del Vangelo, il canto della Sequenza che per il rito Romano è “Victimae Paschali laudes”, una delle poche sopravvissute alla riforma di San Pio V.


[1] Il capitolare di Würzburg ne enuncia fino a 10.

[2] Concesso solo in quei giorni della settimana in cui si commemora la festa di un Santo. Quindi per san Giuseppe si può cantare.

[3] Dicunt se abservare Quinquagesimam, qui forte Quadragesimam complere vix possint-

[4] Diceva S.Agostino : «Congruit nostrae devotioni, ut qui Domini crucifixi passionem iam propinquantem celebraturi sumus, reprimendarum carnalium voluptatum crucem nobis ipsi etiam faciamus»

[5] San Giovanni Crisostomo la definisce grande in quanto gli eventi che la Chiesa ci fa vivere sono veramente grandi e unici. Non quod illius dies maiores sint aliis omnibus, sunt enim alii longiores, neque quod sint numero plures, pares quippe sunt ; sed quod in eis a Domino res praeclarae gestae sint.

[6] Si noti la differenza tra il canone romano e le anafore orientali. Nel primo si dice: «Qui pridie quam pateretur», mentre gli orientali, più genericamente dicono: «In qua nocte tradebatur».

[7] Ossia un ordo missae completo ma senza né offertorio né canone; quindi una sinassi aliturgica

[8] Deus quo et Judas / Deus qui per peccati le quali precedono rispettivamente la prima e la seconda lezione. Più tardi, il Pontificale Romano – Germanico e quella della Curia al secolo XII e poi il messale piano, eliminarono la seconda orazione sostituendola con la prima (Cfr Mario Righetti – Storia Liturgica)