L’articolo sotto riportato vuole tentare di rispondere, senza ovviamente alcuna pretesa, alle riflessioni del giornalista del quotidiano “Il Foglio” (https://www.ilfoglio.it/chiesa/2025/04/29/news/cari-tradizionalisti-da-tradizionalista-vi-spiego-perche-francesco-e-stato-un-pontefice-provvidenziale-7667011/) inerenti al pontificato di Papa Francesco.

Prof. Daniele Trabucco

L’interessante intervento del dott. Mattia Rossi sul quotidiano nazionale “Il Foglio”, nella sua volontà di legittimare il pontificato di Papa Francesco (2013-2025) come attuazione “coerente” del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), è esempio emblematico di come il pensiero contemporaneo, anche quando animato da buone intenzioni di chiarezza e franchezza, si trovi spesso incapace di pensare l’essere, ossia di fondare un giudizio sulla realtà della Chiesa secondo il principio metafisico di non contraddizione. In esso si scorge, in filigrana, l’influsso di un historicismo implicito, che scambia lo sviluppo cronologico per sviluppo ontologico e l’effettualità pastorale per necessità teologica.

L’intera struttura argomentativa poggia, infatti, sulla nozione di “coerenza” interna al paradigma conciliare, dimenticando che ogni coerenza formale, se non fondata sulla verità dell’essere, degenera in sistematicità ideologica. Nel pensiero classico, e in particolare in san Tommaso d’Aquino (1225-1274), la “veritas” è giudizio dell’intelletto che si adegua alla realtà (“adequatio intellectus ad rem”). Tale verità, però, non è né estrinsecamente imposta né riducibile a un processo dialettico interno al soggetto: essa è partecipazione alla verità prima, “veritas prima in mente divina existens”. Applicata alla realtà ecclesiale, ciò significa che la Chiesa non può essere interpretata come semplice fenomeno storico in evoluzione, ma deve essere compresa secondo la sua natura metafisica di “Corpus Christi mysticum”, unità di visibile e invisibile, di gerarchia e carisma, di storicità e trascendenza.

Ogni valutazione che assuma la coerenza con il Concilio come criterio ultimo, indipendentemente dalla sua conformità alla Tradizione ricevuta e trasmessa, si pone già, implicitamente, su un terreno antimetafisico.

È proprio in questo orizzonte che l’elogio rossiano del pontificato di Francesco come “gioco a carte scoperte” tradisce una concezione sostanzialmente volontaristica del governo ecclesiale, ove la trasparenza dell’azione prevale sul suo contenuto veritativo. Che cosa significa, infatti, “smascherare” la contraddizione tra messa antica e nuova? Significa ammettere, implicitamente, che la “lex orandi” preconciliare e quella postconciliare esprimano due visioni teologiche incompatibili.

Messa in rito antico – ad Deum

Tuttavia, se ciò è vero, allora si deve concludere che almeno una delle due non esprime più la fede cattolica integra, oppure che la fede è un contenuto adattabile al mutare delle forme liturgiche. In entrambi i casi si cade in una concezione storicistica della dottrina, secondo la quale non è più il dogma a fondare la prassi, ma la prassi ad autolegittimarsi. È il trionfo di quella “gnosi del fatto” che Étienne Gilson (1884-1978) e Cornelio Fabro (1911-1995) denunciarono con forza: l’idea secondo cui “esse sequitur fieri”, l’essere segue il farsi. Non c’è, in realtá, vera Tradizione senza identità, e non c’è identità se non secondo l’atto dell’essere. L’unità della Chiesa, allora, non è data da una pura coerenza funzionale o giuridico-pastorale, bensí dalla permanenza del medesimo contenuto soprannaturale creduto, adorato e celebrato. Il tentativo, proprio di Benedetto XVI (pontefice dal 2005 al 2013), di salvare tale unità mediante un’ermeneutica della continuità, per quanto problematico, era motivato da un’esigenza metafisica: impedire la rottura dell’”eadem fides” sotto la pressione della modernità. Accusarlo di illusionismo significa, in fondo, negare la possibilità stessa della Tradizione come “actus permanens”, come partecipazione al “Logos” eterno nella storia. Più radicalmente, l’elogio di Francesco quale interprete “coerente” del Concilio, anche nella repressione liturgica, è segno di una concezione del potere ecclesiale sganciata dal vincolo dell’ordine naturale e soprannaturale. Si passa così da una concezione del “potestas sacra” come “ordinatio ad bonum commune veritatis” (come la definisce san Tommaso d’Aquino) a una visione hobbesiana e formalistica del potere papale come ultima istanza regolativa, il cui criterio è l’efficienza nell’implementare decisioni ecclesiastiche, non la loro intrinseca verità. Il diritto liturgico stesso, da espressione simbolica della verità creduta, si trasforma in strumento operativo di uniformità. Ora, come ricorda con acume il tomista Charles De Koninck (1906-1965), il bene comune ecclesiale non si identifica con la mera unità funzionale, bensì con la partecipazione ordinata e gerarchica al bene della verità: “La legge che non conduce alla verità non obbliga in coscienza”.

Infine, la contrapposizione tra messa di san Pio V (Papa dal 1566 al 1572) e messa di san Paolo VI (Pastore della Chiesa dal 1963 al 1978), presentata da Rossi come rivelatrice della verità ecclesiale contemporanea, deve essere rovesciata nei suoi presupposti. Se davvero le due esprimono due ecclesiologie incompatibili, allora il problema non è la coerenza di Francesco, ma la validità stessa del Concilio come atto che ha generato, direttamente o indirettamente, una tale frattura.

In ciò si rivela il limite intrinseco del discorso del giornalista de “Il Foglio”: l’assunzione non dimostrata che il Vaticano II costituisca, per ciò stesso, un principio di legittimità teologica. Va precisato, peró, che la legittimità, nel pensiero classico, si deduce dall’essere, non dalla storia. “Veritas non sequitur temporis fluxum”. La fedeltà alla verità, in ambito ecclesiale, non consiste nel conformarsi alle forme dominanti, ma nel custodire, con umiltà e forza speculativa, ciò che è stato ricevuto. Questo è il compito della teologia, che non è genealogia del potere, quanto esercizio dell’intelligenza dell’essere alla luce della Rivelazione. Tutto il resto, lo si voglia o meno, è ideologia travestita da fedeltà. 

Daniele Trabucco

(Professore strutturato di Diritto Costituzionale e Diritto Pubblico Comparato presso la SSML/Istituto di grado universitario “san Domenico” di Roma. Dottore di Ricerca in Istituzioni di Diritto Pubblico nell’Universitá degli Studi di Padova).