Londra, 2 maggio 1536.

La primavera aveva appena cominciato a diffondere i suoi profumi sui giardini di Greenwich, ma il cuore della regina Anna Bolena era pesante. Quella mattina, il re Enrico VIII, una volta tanto appassionato, ora freddo come marmo, l’aveva chiamata a corte. Le sue parole erano state ambigue, ma il suo sguardo era chiaro: qualcosa di tremendo stava per accadere.

Nel pomeriggio, un messaggero entrò nei suoi appartamenti: “Sua Maestà vi ordina di seguirci.” Anna, regina d’Inghilterra, madre di una principessa e seconda moglie del re, fu condotta con discreta solennità, ma senza alcuna pietà, alla Torre di Londra. Le accuse? Adulterio. Incesto. Tradimento.

4 maggio.

La torre, fredda e spoglia, divenne la sua prigione. In quei giorni il nome della regina fu pronunciato a bassa voce nei corridoi, mescolato a sussurri e intrighi. Il musico Mark Smeaton, torturato, aveva confessato di aver giaciuto con lei. Altri quattro uomini furono arrestati, tutti cortigiani vicini alla regina, tutti colpevoli secondo Thomas Cromwell, il burattinaio dell’accusa.

10 maggio.

Il Gran Giurì formalizzò le imputazioni: incontri notturni, parole sconce, cospirazioni. Alcune date erano palesemente false, ma nessuno osava dirlo ad alta voce. Il re voleva liberarsi di Anna. E ciò che il re voleva, la legge glielo concedeva.

12 maggio.

Westminster Hall. I quattro accusati furono giudicati da una corte che aveva già deciso. Colpevoli. Traditori. Le loro teste sarebbero cadute per il re e per la corona. Il popolo cominciava a mormorare, ma le bocche si chiudevano in fretta, per timore di condividerne il destino.

15 maggio.

La regina, in abito nero, apparve davanti al tribunale dei Pari. Elegante e composta, si difese con parole precise, ma inutili. Accanto a lei, il fratello George, accusato persino di incesto. Il processo fu una farsa. La condanna: morte. Ma Enrico, “magnanimo”, ordinò la spada al posto dell’ascia, e un boia francese, esperto, fu fatto arrivare da Calais.

17 maggio.

Gli uomini morirono uno dopo l’altro, tra le grida della folla e il clangore del metallo su carne viva. George fu l’ultimo. Si dice che Anna abbia visto il corteo funebre dalla finestra della sua cella. Le sue mani tremarono. Non pianse.

18 maggio.

Thomas Cranmer, l’arcivescovo, venne a visitarla. Le annullò il matrimonio. Ufficialmente, non era mai stata regina. La sua figlia, Elisabetta, non era più legittima. Anna ascoltò, silenziosa, con uno sguardo fisso, come chi ha già oltrepassato il confine del dolore.

19 maggio 1536.

All’alba, vestita di grigio perla, Anna salì al patibolo in un piccolo cortile interno della Torre. I suoi passi erano lenti, ma dignitosi. Il boia l’attendeva, la spada nascosta per non intimidirla. Nel suo discorso finale non accusò nessuno. Lodò il re, pregò per l’Inghilterra e per la sua anima.

Poi si inginocchiò. Il boia gridò a un aiutante di prenderle il mantello, distrasse Anna per un attimo, e in quel preciso istante la lama tagliò l’aria e la vita.

Il corpo fu deposto in una rozza cassa di legno, quella usata per le frecce. Nessuna bara. Nessuna cerimonia. La seppellirono nella cappella della Torre, tra le pietre fredde che avevano visto nascere e morire tanti sogni.


E undici giorni dopo, Enrico VIII sposò Jane Seymour.