A cura di Indro D’Orlando

La bibliografia su Dante e sulla Divina Commedia è immensa per non dire sterminata.

Sul Poeta fiorentino e sul Poema sono passati secoli di scrittura, commenti, interpretazioni che non consentono un’unica ed univoca risposta in merito all’enigmatica personalità di Dante e, sopratutto, riguardo al messaggio della sua opera maggiore.

Il suo Poema rimane ancora oggi un enigma che continua a stimolare i suoi appassionati lettori e studiosi, perché, di certo, non può dirsi conclusa l’impresa di esplorazione e di comprensione dei 14’233 versi che lo compongono.

In questi brevi contributi che ho deciso di caratterizzare con l’espressione “Oltre il velame” – riferendomi ai famosi versi del nono canto delI’Inferno O voi ch’avete li ‘ntelletti sani, mirate la dottrina  che s’asconde sotto ‘l velame de li versi strani – intendo trattare aspetti particolari di non semplice comprensione immediata, a volte enigmi esposti in evidenza, che, se enucleati e letti con la giusta luce, possono favorire una maggior penetrazione del senso del testo e ciò affinché il lettore possa avvicinarsi sempre più al valore spirituale del poema sacro al quale  ha posto mano e cielo e terra come afferma Dante nel Paradiso.

Gustave Do

Inferno, Canto I – Il mistero del “passo” e della “lupa”

Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita.

Così inizia il Poema più importante della letteratura italiana. Sono i primi versi, la prima terzina,  del primo canto dell’Inferno ossia la prima cantica della Commedia.

Una cantica che conta 34 canti mentre le altre due cantiche, il Purgatorio e il Paradiso ne contano 33, quindi sommando le tre cantiche si arriva ad  un totale di 100 canti.

Il primo canto è dunque una specie d’introduzione all’intero Poema, un proemio vero e proprio che subito porta il lettore a comprendere che i contenuti dell’opera che sta per leggere sono di un tipo particolare. Infatti, fin dall’inizio il linguaggio della Commedia è un linguaggio di tipo simbolico. Il mondo nel quale si addentra il lettore è immediatamente un mondo dove si palesa la dimensione simbolica delle cose, che, nella narrazione, si presentano alla coscienza di chi legge.

La “selva oscura” è il primo elemento simbolico che si presenta nella sua oggettiva evidenza. Ma cosa questa foresta buia possa significare se non un luogo di smarrimento, quindi uno stato interiore di confusione, una notte dell’anima?

E un tale stato cosa potrebbe significare?

L’identificazione di ‘silva’ con la ‘hyle’ dei Greci – la materia –  è presentissima nella cultura medievale e, nella fattispecie, nell’esegetica. Un fatto che di sicuro Dante non ignorava: la “silvam malorum”, la “foresta dei mali” ovvero il carcere materiale di un’anima dimentica di sé, è indubbiamente un tema neoplatonico e gnostico affine alla tradizione cristiana cattolica.

Questa “selva” dunque è simbolicamente il contesto materiale di un’anima che del tutto dimentica della propria natura e, quindi, della propria origine, si trova immersa nel mondo della materia rischiando, in questo pericoloso oblio di sé, la morte spirituale.

In quel periodo così travagliato della sua vita che portò Dante a smarrirsi, avvenne qualcosa di potente, un risveglio dell’anima:

guardai in alto e vidi le sue spalle vestite già de’ raggi del pianeta che mena dritto altrui per ogne calle.

Dante si desta,  innalza lo sguardo dal sentiero tenebroso e volgendo gli occhi verso l’alto vede il “pianeta”. Che cosa si palesa qui se non l’astro simbolicamente atto a rappresentare non solo la Luce, quindi l’elemento che interrompe la notte ed illumina il buio, ma anche la fonte della Luce, ovvero per un cristiano medievale come Dante – il principio Dio Padre.

così l’animo mio, ch’ancor fuggiva, si volse a retro a rimirar lo passo che non lasciò già mai persona viva.

“Lo passo …” ma quale “passo” è qui evocato?

Il Poeta ne parla al lettore come se il significato di questo luogo – concreto o astratto che sia –  fosse diretto, immediato, quasi ovvio perché noto a tutti. Infatti, molti lettori passano senza fermarsi, molti commenti ne parlano riferendosi alla “selva”. Ma quella “selva” è forse più di quanto possa semplicemente rappresentare simbolicamente ovvero qualcosa che non sia soltanto un luogo di perdizione. Qui Dante evocando lo passo che non lasciò già mai persona viva approfondisce la simbolica della “selva oscura” caratterizzando chiaramente la “selva” come un mortale “luogo di passaggio”. Ma, come fa lui Dante, ad averlo attraversato restando vivo?

Occorre quindi  interrogarsi sul significato – per Dante –  di una “persona viva”.

Nulla è casuale nella Commedia, perciò è importante tenere in considerazione la possibilità che l’espressione voglia dire qualcosa di diverso, ovvero più di quanto voglia significare il suo senso letterale.

Quale significato assume la vita umana per Dante? Senza sprofondare nella ricerca erudita di elementi presenti in tutta l’opera dantesca, è già sufficiente prendere la Commedia medesima come risposta: il viaggio dell’anima umana anzi tutto verso se stessa, verso la divina dimensione dello Spirito, dove essa finalmente trova Dio.

La vita vera è – alla luce della Commedia – una vita vissuta facendo anima e cercando lo Spirito.

Una delle lezioni fondamentali del Poema è che l’uomo non è fatto per vivere solo della vita dei sensi, ma sopra tutto per conoscere e amare.

La “morte” – pur restando biologicamente vivi –  è allora logicamente il contrario: una vita vissuta rinchiusa nell’oscurità della materia, schiava dei sensi e del tutto ottusa rispetto allo Spirito.

Da molte tradizioni esoteriche sappiamo che gli iniziandi che venivano preparati ai Misteri (scuole segrete di conoscenze mistiche e soprasensibili) passavano un’iniziazione varcando una soglia psichica, che equivaleva ad una piccola morte, ovvero uno stato alterato di coscienza con il quale l’iniziando poteva accedere a livelli di coscienza superiori.

Così si attuava il passaggio dalla vita profana alla vita iniziatica.

Ci sono elementi che possono indurci a pensare che Dante si riferisca ad un’esperienza mistica di questo tipo.

Parlare di un’esperienza mistica vissuta da Dante può forse sorprendere o suscitare delle perplessità, ma essa è esposta in evidenza nell’epistola a Cangrande della Scala. In questa lettera il Poeta ne parla inequivocabilmente distinguendola da qualsiasi tipo di fantasticheria: nelle sue spiegazioni, Dante parla chiaramente di una visione di tipo mistico.

L’interpretazione simbolica ed esoterica della Commedia è sempre esistita. Notevoli studiosi vi hanno dedicato la vita ed il talento. Il motivo di una tale dedizione non risiede nella fantasia dei cosiddetti  “adepti del velame” bensì nei versi del Poema.

Come disse il grande dantista Bruno Nardi, quel “certo disprezzo” di alcuni, seppur notevoli filologi e dantologi nei confronti delle letture filosofiche della Commedia è stata una forma di oscurantismo a scapito dello spirito che anima la lettera del Poeta. Ma se la lettera è il corpo dello spirito di un poema e occorre, prima di tutto, comprenderla bene, nondimeno la lettera deve poter  “morire” e ciò affinché lo spirito della lettera medesima ne possa risorgere e manifestarsi.

Osip Mandel’stam, appassionato studioso di Dante che riteneva la lettura giornaliera della Commedia preziosa quanto il pane quotidiano, scrisse: “studiare Dante in avvenire sarà, spero, osservare il rapporto di un testo al suo involarsi.”

Per un’anabasi di questo tipo è necessario il paradigma del Dante profeta e mistico, quello del Poema sacro che ha fatto dire ad Ezra Pound: “la Commedia è una grande sacra rappresentazione, o meglio, un intero ciclo di sacre rappresentazioni”.

Chi dubitasse della mistica dimensione del Poema, tenga presente l’ampiezza e la statura data dal Poeta al Poema: un libro sacro “al quale ha posto mano e cielo e terra” (Paradiso XXV).

Questa Visione mistica  – chiaramente espressa alla fine della Vita Nova (capitolo 42) – costituisce dunque il più autentico impulso primigenio della Commedia. Ricercare altrove il motivo originante del Poema, significa, in poche parole, non prendere Dante sul serio.

Questi riferimenti – qui ridotti a pochi – permettono d’illuminare il significato e di comprendere l’importanza dell’enigmatico “passo”, “che non lasciò già mai persona viva”. Un luogo di passaggio non per tutti, una soglia che per essere varcata richiede di morire a se stesso, e qui Dante intende chiaramente la morte della “persona” ovvero la morte dell’io mondano immerso nella “selva oscura” della contingenza.

Ora ritorniamo nella narrazione del canto.

Allorché Dante si muove verso il colle, quindi verso l’alto, verso la luce, s’imbatte in tre fiere: un lonza, un leone ed una lupa.

Ciò che sorprende è un fatto semplice ed oggettivo: la fiera che Dante teme di più non è il leone – come sarebbe naturalmente logico data la grave pericolosità di questo predatore rispetto alle altre due fiere – ma è la lupa.

Ed una lupa, che di tutte brame sembiava carca ne la sua magrezza, e molte genti fé già viver grame,

E’ proprio la lupa a fermare il cammino di Dante e la sua speranza di uscire dall’oscurità della selva e di raggiungere la luminosa cima del colle.

questa mi porse tanto di gravezza con la paura ch’uscia di sua vista, ch’io perdei la speranza de l’altezza.

Insomma, il passaggio da uno stato di coscienza all’altro è letteralmente impedito dalla “gravezza” causata dalla presenza della lupa e non, come sarebbe logico, dalla potente pericolosità del leone.

Quindi il mistero della lupa s’impone al lettore attento che non dà per scontato questa precisa scelta del Poeta. Dunque perché la lupa e non il leone?

Infinite sono le pagine della critica dantesca per individuare a chi o a cosa mai Dante si riferisse con queste tre fiere.

La questione altamente significativa è indubbiamente la presenza della lupa perché proprio a causa della paura che gli incute, essa impedisce a Dante la salita verso il colle illuminato dal sole e gli fa perdere la speranza de l’altezza costringendolo a tornare sui suoi passi.

tal mi fece la bestia sanza pace, che, venendomi ‘ncontro, a poco a poco mi ripigneva là dove ‘l sol tace.

In questo momento di terrore, Dante incontra il suo primo maestro: Virgilio.

Le parole di Virgilio sulla lupa confermano la “gravezza”, la pericolosità di quella presenza, ma non chiariscono nulla, anzi, potenziano il mistero.

“A te convien tenere altro vïaggio”, rispuose, poi che lagrimar mi vide, “se vuo’ campar d’esto loco selvaggio;
ché questa bestia, per la qual tu gride, non lascia altrui passar per la sua via, ma tanto lo ‘mpedisce che l’uccide;

Come osservò Giovanni Pascoli,  Dante non ha voluto essere chiaro: “Dante eclissa nella profondità del suo pensiero: volontariamente eclissa”. Sì, Dante ci sfida.

In merito alle tre fiere e soprattutto riguardo alla lupa sono state fatte nei secoli le più svariate interpretazioni. Non è qui il luogo dove farne una disamina.

Una cosa, in ogni caso, è certa: esse rappresentano le forze del male. E il male fondamentale è incarnato dalla lupa.

In questo primo canto, dunque, già al lettore s’impone un mistero ed un enigma da risolvere: che cosa lega lo passo che non lasciò già mai persona viva e la lupa che non lascia altrui passar per la sua via, ma tanto lo ‘mpedisce che l’uccide?

Ad ogni lettore del Poema conviene apprezzare e valutare bene la portata di questa domanda e ciò affinché tutto il proseguo della narrazione possa essere pienamente vissuto e capito. Perché è da questo fatto enigmatico che il cammino della Commedia inizia.