Daniele Trabucco

Nell’attuale momento storico della Chiesa cattolica, si assiste a una progressiva insistenza sul paradigma sinodale quale struttura portante del suo rinnovamento ecclesiale. Tale orientamento, che ha trovato ampio spazio nei lavori delle recenti Congregazioni generali in vista del prossimo Conclave, solleva non poche perplessità sul piano della coerenza teologica e della tenuta giuridica del principio di autorità nella Chiesa. L’adozione sistematica della sinodalità, intesa non più quale forma complementare di esercizio della collegialità episcopale, ma quale principio ordinatore della costituzione ecclesiale, rischia di dissolvere il carattere gerarchico e soprannaturale dell’istituzione ecclesiastica, strutturata, secondo il dettato divino, sulla successione apostolica e sul munus regendi del Vescovo di Roma quale Vicario di Cristo. Sul versante filosofico-giuridico, l’impianto sinodale, così come oggi proposto, sembra ispirarsi a categorie concettuali proprie della modernità democratica, in particolare alla teoria della rappresentanza e alla logica della deliberazione assembleare. In tale prospettiva, la verità rivelata rischia di essere subordinata al consenso comunitario, secondo un’impostazione che dissolve la dimensione verticale e trascendente della Traditio, sostituendola con una dinamica orizzontale di tipo processuale. In questo modo, la lex ecclesiae, anziché attingere dalla lex aeterna mediante la mediazione della lex divina e della lex naturalis, tende a farsi espressione di una volontà collettiva che assume il carattere, di fatto, di una nuova fonte del diritto canonico, in cui l’autorità non precede il consenso, ma ne deriva.

È qui che si manifesta una fondamentale aporia: l’identificazione della sinodalità con una sorta di “cammino permanente” minaccia di disgregare l’unità formale del corpo ecclesiale, sostituendo all’unità dottrinale un pluralismo di prassi e opinioni legittimate in nome dell’ascolto e del discernimento comunitario. Tuttavia, una Chiesa che ascolta senza più insegnare, che discerne senza più definire, e che si fa popolo prima che Corpo mistico, abdica alla propria funzione normativa, riducendosi a semplice luogo di mediazione socio-culturale.

Il rischio, allora, è quello di una ecclesiologia fluida, in cui la stabilità del depositum fidei viene relativizzata dall’urgenza pastorale, secondo la logica storicista del “segno dei tempi”. Non si tratta, ovviamente, di negare il valore della partecipazione dei fedeli alla vita della Chiesa, né di sminuire l’importanza dell’ascolto come categoria spirituale. Tuttavia, la giusta valorizzazione del sensus fidei fidelium non può mai tradursi in un ribaltamento delle fonti della normatività ecclesiale.

Una vescova protestante.

La sinodalità, se separata dalla dimensione sacramentale dell’autorità, rischia di diventare un dispositivo decisionale autoreferenziale, non più strumento di comunione, bensí veicolo di conflittualità latente tra prassi pastorale e verità dogmatica. In questo contesto, la riflessione filosofico-giuridica è chiamata a riaffermare l’esigenza di un ordine giuridico fondato sull’ontologia della verità e non su dinamiche consensuali. Solo in questo modo sarà possibile custodire l’essenza teandrica della Chiesa, che non è una società come le altre, ma il sacramento universale di salvezza, ordinato da Cristo e strutturato secondo un principio di autorità che non nasce dal basso, ma discende dall’alto.

Daniele Trabucco