di Luca del Zotti

Da quando ha conquistato la Casa Rosada, Javier Milei è diventato una figura di rottura sulla scena politica internazionale. Con il suo linguaggio provocatorio, la gestualità teatrale e l’aspetto fuori dagli schemi, è facile per molti ridurre la sua figura a una macchietta o a un pericolo pubblico. Alcuni arrivano persino a definirlo “fascista”. Ma questa accusa, oltre a essere storicamente infondata, rivela la difficoltà di comprendere la vera natura della sua proposta politica: una reazione liberale e antistatalista a decenni di declino economico, di corruzione sistemica e di clientelismo istituzionalizzato. Per comprendere perché parlare di fascismo in riferimento a Milei sia una distorsione, è bene ricordare cosa sia effettivamente il fascismo.

Si tratta di una dottrina totalitaria basata sullo statalismo estremo, sull’unità forzata tra governo e popolo, sul corporativismo economico e sull’autoritarismo repressivo. Il fascismo è culto dello Stato, non della libertà. Milei, invece, si ispira apertamente alla scuola austriaca di economia: è un sostenitore della libertà individuale, della riduzione dello Stato al minimo indispensabile e dell’economia di mercato come via di liberazione dalla miseria. Le sue radici ideologiche affondano in Mises, Hayek e Rothbard, non certo in Mussolini.

Anzi, per Milei lo Stato è spesso il problema, non la soluzione. Lo definisce “una macchina per rubare”, ne denuncia l’inefficienza e combatte attivamente gli sprechi che da decenni dissanguano le casse pubbliche argentine.L’Argentina non è un Paese normale. È un Paese in default tecnico, con un’inflazione al 200% annuo, una moneta svalutata, la povertà in crescita e una classe media strangolata dalle tasse. Per decenni, il peronismo, nelle sue diverse varianti, ha alimentato un sistema clientelare fondato su spesa pubblica fuori controllo, sussidi elettorali e corruzione endemica. Ogni tentativo di riforma è stato soffocato da sindacati, burocrazie e lobby politiche. Milei ha promesso di spezzare questo ciclo e sta cercando di farlo con misure drastiche. Ha tagliato spesa improduttiva, ridotto il numero dei ministeri, cercato di liberalizzare settori dell’economia paralizzati dal protezionismo e annunciato l’intenzione di dollarizzare l’economia per combattere la spirale inflazionistica. In pochi mesi ha ottenuto alcuni risultati concreti: la moneta ha smesso di crollare, gli investitori tornano a interessarsi al Paese e la macchina pubblica, seppur tra mille resistenze, inizia a ridurre i suoi costi.

Milei è eccentrico, sì. È atipico, irriverente, talvolta brutale nella comunicazione, ma è coerente. Non è un populista che promette tutto a tutti. Non fa clientelismo. Non compra voti con sussidi. È forse il primo presidente argentino in tempi recenti che dice agli elettori la verità, che il risanamento sarà doloroso, che ci saranno sacrifici e che non esistono scorciatoie. Ha scelto la via più difficile, quella del rigore, e lo sta facendo all’interno di un sistema democratico, rispettando le regole istituzionali, affrontando un Congresso spesso ostile senza cercare scorciatoie autoritarie. Non ha militarizzato il potere esecutivo, non ha chiuso media, non ha represso l’opposizione. Anzi, sono proprio le classi dirigenti parassitarie, quelle abituate a vivere di politica e a occupare lo Stato, a reagire con violenza verbale alle sue riforme, perché vedono nella sua agenda una minaccia al sistema di privilegi su cui hanno prosperato.

In un mondo politico sempre più dominato da slogan e retorica vuota, Milei ha il merito o il difetto, per alcuni, di dire ciò che pensa senza filtri. Rompe le liturgie, infrange i tabù, chiamale cose con il loro nome. Questo stile spiazza, turba, scandalizza, ma è anche ciò che lo rende credibile agli occhi di milioni di argentini stanchi di essere presi in giro da una classe politica che ha portato il Paese alla rovina. Le sue intemperanze mediatiche non devono far dimenticare il dato politico: Milei non è un despota, ma il presidente democraticamente eletto da un popolo esasperato.

È stato scelto proprio perché rappresenta una discontinuità radicale, non perché prometta il ritorno a un passato glorioso inesistente. Per onestà intellettuale, va riconosciuto che Milei non è immune da errori. Due, in particolare, hanno generato polemiche: il cosiddetto “rug pull” sulla criptovaluta promozionale associata alla sua immagine, percepito come un gesto ambiguo e malcomunicato, e il controverso ritiro temporaneo di una risoluzione che garantiva tutelefondamentali alle persone con disabilità, un passo indietro che ha suscitato legittime critiche e che il governo ha dovuto correggere. Tuttavia, questi scivoloni, pur gravi, restano marginali rispetto ai progressi economici strutturali che il suo governo ha già avviato in pochi mesi, in

un contesto ereditato tra i più disastrosi al mondo. Liquidare Javier Milei come “fascista” è un riflesso ideologico, non un’analisi seria. Non è un nostalgico del potere assoluto, ma un liberale radicale che cerca di ridare dignità economica e istituzionale a un Paese distrutto da decenni di illusioni. La sua presidenza è una sfida, non solo all’establishment argentino, ma anche alle categorie con cui interpretiamo la politica. Milei non è perfetto. Ma non è nemmeno l’incubo autoritario che alcuni vogliono dipingere. È, nel bene e nel male, l’uomo che ha avuto il coraggio di dire che il re è nudo e di proporre un’alternativa, per quanto impopolare. In un’epoca di mediocrità politica, questo, di per sé, è già rivoluzionario

  • promozionale associata alla sua immagine, percepito come un gesto ambiguo e mal comunicato, e il controverso ritiro temporaneo di una risoluzione che garantiva tutele fondamentali alle persone con disabilità, un passo indietro che ha suscitato legittime critiche e che il governo ha dovuto correggere. Tuttavia, questi scivoloni, pur gravi, restano marginalirispetto ai progressi economici strutturali che il suo governo ha già avviato in pochi mesi, in un contesto ereditato tra i più disastrosi al mondo.Liquidare Javier Milei come “fascista” è un riflesso ideologico, non un’analisi seria. Non è un nostalgico del potere assoluto, ma un liberale radicale che cerca di ridare dignità economica e istituzionale a un Paese distrutto da decenni di illusioni. La sua presidenza è una sfida, non solo all’establishment argentino, ma anche alle categorie con cui interpretiamo la politica. Milei non è perfetto. Ma non è nemmeno l’incubo autoritario che alcuni vogliono dipingere. È, nel bene e nel male, l’uomo che ha avuto il coraggio di dire che il re è nudo e diproporre un’alternativa, per quanto impopolare. In un’epoca di mediocrità politica, questo, di per sé, è già rivoluzionari