I quaderni del rifiuto (Ortica, 2019) di Geppino Spirito, in arte Alter Spirito, si impongono come una delle testimonianze più lucide e disperate del pensiero postmoderno italiano. Quest’opera, che si muove con passo grave e consapevole fra le rovine del pensiero contemporaneo, può essere letta come una lunga meditazione sull’impossibilità di costruire ancora una narrazione unitaria del mondo. Come indicava François Lyotard, siamo entrati in un’epoca che ha smarrito i “grandi racconti”: non ci resta che la memoria frammentaria delle macerie, l’eco dei saperi passati, l’ossatura nuda della civiltà.
In questa temperie, I quaderni del rifiuto si presentano come un grido sommesso e potente, come un urlo notturno di protesta, come l’autore stesso li definisce. La loro forza non sta nella proposta di un’alternativa, ma nel coraggio della diagnosi, nell’eroismo lucido di chi pensa contro il proprio tempo — gesto che, come ci ricorda l’esergo di Eugène Ionesco che apre il volume, è “eroismo”, ma anche “follia”. Una follia consapevole, abbracciata come unico atto autentico possibile.
Il citazionismo che attraversa le pagine dei quaderni non è un vezzo estetico, ma una strategia di resistenza. In un mondo che ha rinunciato a pensare in profondità, l’uomo postmoderno — consapevole della sterilità di ogni “studio matto e disperatissimo” leopardiano — si rifugia nei pensieri illuminati degli spiriti passati, li convoca come testimoni, li assume come compagni di viaggio. Così, Schopenhauer e Cioran, Baudelaire e Borges affiorano come presenze vive, oracoli intermittenti di una civiltà agonizzante. In loro Alter Spirito riconosce i segni di un’esistenza che ha saputo interrogarsi, che non ha avuto paura del dolore e del vuoto, che ha saputo trasformare la malinconia in conoscenza.

È infatti la malinconia — sacra, aristotelica, febbrile — a intessere ogni pagina dei quaderni. Come già Aristotele suggeriva nel frammento su “La malinconia dell’uomo di genio”, e come poi H. Tellenbach avrebbe teorizzato in Melanconia. Storia del problema…, la sofferenza psichica non è un difetto, ma una condizione del genio, una forma di conoscenza intensificata, una simmetria spirituale. Spirito la abita come un esilio e un altare. I suoi dodici anni di scrittura — dal 15 settembre 2006, giorno della morte di Oriana Fallaci, alla quale dedica parole di vibrante ammirazione, fino al 4 gennaio 2018 — sono un lungo itinerario di insonnia e riflessione, di ribellione e rinuncia, di parole lanciate contro il muro del silenzio contemporaneo.
Nel cuore di questi anni, si agita un dissidio spirituale: la volontà di dire, che è sempre atto d’amore e di libertà, e insieme la tentazione di tacere, di ritirarsi, di trovare “un pacifico silenzio in cui adagiarsi”. Una tensione che non si scioglie, ma che diventa forma stessa dell’opera: i quaderni sono una scrittura in bilico, un esercizio di equilibrio tra la volontà e la resa.
Con I quaderni del rifiuto, Alter Spirito ci consegna non un sistema, ma un sintomo; non una visione, ma uno specchio infranto in cui riconoscere i frammenti del nostro presente. La sua è una protesta intellettuale contro la banalità del tempo, contro le “società disperate” e i loro esiti nichilistici, ma è anche un atto di tenerezza verso tutto ciò che, pur perduto, può ancora parlarci. E nel disincanto che abita ogni riga, si avverte un desiderio che non si spegne: quello di sopravvivere pensanti, nonostante tutto.