Liliane Tami
C’è un confine sottile ma sacro che separa lo Stato dalla Chiesa, e che garantisce la libertà religiosa come fondamento di ogni democrazia autentica. Infrangere quel confine, anche con le migliori intenzioni, significa varcare una soglia pericolosa: significa dimenticare che la coscienza è un santuario inviolabile, e che nella relazione tra penitente e confessore si gioca qualcosa di troppo profondo per essere violato da leggi umane.
La recente legge firmata dal governatore dello Stato di Washington, Bob Ferguson, impone ai sacerdoti cattolici di denunciare ogni abuso su minori di cui vengano a conoscenza, anche quando la rivelazione avviene nel contesto del sacramento della confessione. Il sacerdote è ora, per lo Stato di Washington, un “mandated reporter” come un qualsiasi pubblico ufficiale. Ma a differenza di psicologi, terapisti, medici e avvocati, al sacerdote non è riconosciuta alcuna protezione per le “comunicazioni privilegiate”, ossia per quei colloqui coperti dal sigillo sacrale della riservatezza.
Il cuore di questa legge, pur animato da una comprensibile e giusta intenzione – quella di proteggere i minori da ogni forma di abuso – tradisce però una visione profondamente distorta del senso della giustizia e del ruolo spirituale del sacerdote. Si tratta, in effetti, non tanto di una legge sulla tutela dei minori, quanto di una preoccupante ingerenza dello Stato nelle questioni interne della Chiesa, un attacco diretto alla libertà religiosa garantita dal Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti. Non a caso, il Dipartimento di Giustizia federale ha già aperto un’inchiesta per sospetta violazione della libertà religiosa.

Nel diritto canonico, il sigillo della confessione è assoluto. Il sacerdote che osasse rivelare ciò che ha ascoltato nel segreto del confessionale, anche sotto minaccia, tortura o sanzione civile, incorre nella scomunica latae sententiae, ossia automatica. Questo perché, nella confessione, il penitente parla a Dio, non a un funzionario dello Stato, e il sacerdote è soltanto il mediatore sacramentale di questo dialogo intimo e sacro.
Infrangere il segreto confessionale significherebbe profanare l’atto stesso della riconciliazione, distruggere la fiducia tra penitente e confessore, svuotare di senso il sacramento stesso. Nessun colpevole, nessun molestatore, si avvicinerebbe più a un confessionale, sapendo che le proprie parole potrebbero essere usate contro di lui. Eppure proprio in quel gesto, nella decisione – anche se timida e incerta – di confessare il proprio peccato, può iniziare un cammino di conversione autentica, una possibilità reale di pentimento, riparazione, autodenuncia.
Il sacerdote non è un investigatore né un pubblico ministero: è una guida dell’anima, un accompagnatore verso la verità e la giustizia. È spesso l’unico che può parlare al cuore di chi ha commesso delitti gravi, l’unico che può condurre una coscienza in frantumi verso il coraggio della confessione pubblica e dell’assunzione di responsabilità penale. Non perché lo costringa la legge, ma perché lo suscita la grazia.
Lo Stato dovrebbe comprendere che la Chiesa non è un rifugio per criminali, ma un luogo dove anche il peggiore dei peccatori può iniziare un cammino di redenzione. Impedire questo significa non solo ostacolare la Chiesa nel suo compito più alto – salvare le anime – ma anche privare la società stessa della possibilità che la conversione interiore diventi anche giustizia compiuta nel foro esterno.
Come ricordarono con forza i vescovi australiani di fronte a leggi analoghe, abolire il segreto della confessione non impedirà gli abusi, ma semplicemente farà sì che essi non emergano mai, nemmeno come confessione spirituale, tagliando alla radice una delle poche strade attraverso cui l’anima può ritornare in sé e chiedere aiuto.
La libertà della Chiesa, la dignità del sacramento, il mistero della coscienza, non sono ostacoli alla giustizia, ma sorgenti di una giustizia più alta, capace di trasformare il cuore dell’uomo. Rompere il sigillo della confessione, invece, è rompere il patto tra lo Stato e la libertà spirituale. È dimenticare che la verità non nasce dalla sorveglianza, ma dalla coscienza illuminata