(Caen, circa 1830. Solo, tra i ricordi.)
(fissando lo specchio incrinato, sorridendo amaramente)
Eccolo lì, il re del bel mondo.
Il maestro del nodo perfetto.
Il terrore dei sarti, l’idolo delle signore.
Beau Brummell.
(si passa una mano tra i capelli, stanchi ma ancora ordinati)
Una volta bastava un mio cenno per decidere il destino di un cappotto. Una parola e un uomo era dentro o fuori dalla società.
E il Principe… ah, il Principe…
Lui rideva delle mie battute. Mi chiamava “il mio amico Brummell”, come se fossimo fratelli d’azzardo, compagni di gusto.
Io gli insegnavo come vestirsi. Lui mi insegnava come farsi temere senza dire nulla.
Lo ammiravo, sai?
In fondo — non lo direi mai ad alta voce — volevo essere come lui.
(pausa. Sguardo nel vuoto.)
Ma l’equilibrio era sottile. Io ero il giullare senza campanelli. Lo sapevo.
Solo che… mi sono spinto troppo oltre.
Quella sera. Quel ballo. Quello sguardo altezzoso che mi passò accanto…
E io… io dissi la frase.
“Chi è quel grassone vestito di blu?”
(sorride, stanco)
Una frase. Una sola. E Londra mi voltò le spalle.
Il Principe si vendicò col silenzio.
Io, con le mie cravatte, non potevo più legarmi neanche un credito.
(guarda il bicchiere vuoto)
Mi resta il ricordo.
Del velluto sotto le dita. Della sala da ballo che si fermava quando entravo.
Di George che rideva e diceva: “Brummell ha parlato. Così sia.”
(si alza a fatica, barcolla verso la finestra)
E ora eccomi qui. A Caen. Nessuno bussa alla porta.
I guanti sono bucati. Le lettere non arrivano più.
E il Re?
Lui siede su un trono… e io su una sedia che traballa.
(pausa. Sussurra con dolce ironia)
Eppure, sapete cosa?
Anche oggi, non metterebbe un fazzoletto in tasca senza pensarci due volte.
“Che direbbe Brummell?”
(guarda lo specchio. Ultima battuta, a bassa voce.)
Ditegli che, anche nell’oblio, resto il meglio vestito dell’inferno.