Il 23 maggio 1992, alle 17:58, un boato squarciò l’autostrada A29 all’altezza di Capaci. Una carica di tritolo posizionata sotto l’asfalto portò via la vita a Giovanni Falcone, a sua moglie Francesca Morvillo e agli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Era un sabato pomeriggio di primavera, e da quel momento l’Italia non sarebbe più stata la stessa. Oggi, a 33 anni di distanza, quel dolore brucia ancora. Ma più forte del lutto è la memoria viva, radicata, che continua a germogliare nel cuore di chi crede nella giustizia.

Giovanni Falcone non è stato solo un magistrato, ma un simbolo di rigore morale e di fede incrollabile nello Stato di diritto. La sua vita è stata un’esemplare testimonianza di coraggio intellettuale e umano: ha scelto di guardare in faccia la mafia quando molti distoglievano lo sguardo, ha sfidato il silenzio, la connivenza e l’omertà con il linguaggio dei fatti, dei codici e della verità.

Falcone ha capito prima di altri che la mafia non è folklore, non è solo violenza, ma potere economico, politico e culturale. L’ha combattuta con gli strumenti della legge, con una visione lucida e moderna, costruendo indagini, cooperazioni internazionali, metodi investigativi che ancora oggi fanno scuola. Insieme a Paolo Borsellino e al pool antimafia, ha dimostrato che lo Stato può vincere, se ha la volontà, la coerenza e il coraggio di non voltarsi indietro.

Eppure, Falcone non è stato un eroe mitico. Era un uomo. Con le sue fragilità, i suoi momenti di solitudine, le sue amarezze. Non fu sempre compreso, fu ostacolato, criticato, lasciato spesso solo da quel Paese che diceva di voler difendere. La sua grandezza sta anche in questo: aver continuato la sua missione senza cedere all’odio, senza mai perdere la misura, senza rinunciare al sorriso e all’ironia. Fino all’ultimo, ha servito la giustizia come forma alta di amore per il prossimo.

Trentatré anni dopo, la sua morte resta una ferita aperta, ma anche un seme di speranza. Ogni scuola intitolata a lui, ogni aula dove si studiano le sue parole, ogni giovane che sceglie la legalità come stile di vita, è un segno che la mafia può essere sconfitta. Non con le vendette, ma con la cultura, con la dignità, con il lavoro paziente del bene.

Oggi, ricordare Giovanni Falcone non è solo un dovere civico, ma una chiamata alla responsabilità. Non basta commemorare: bisogna continuare la sua opera, ciascuno nel proprio ruolo, senza scorciatoie, senza cinismi, senza paure.

Perché — come diceva lui stesso — “la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine”. Spetta a noi, oggi, far sì che questa fine si avvicini, anche solo di un passo.

Falcone non è morto. È vivo in ogni coscienza che si oppone al male con fermezza e amore per la verità. E finché ci sarà qualcuno disposto a credere che “chi tace e piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e cammina a testa alta muore una volta sola”, allora Giovanni Falcone continuerà a vivere.