Liliane Tami, filosofa e bioeticista

La recente sentenza della Corte di Cassazione che riconosce legalmente due madri a un bambino nato tramite fecondazione in vitro rappresenta un punto di svolta giuridico e culturale. Un punto di svolta che, però, apre interrogativi profondi e laceranti sull’idea stessa di genitorialità, sulla tutela dell’infanzia e sul senso ultimo del diritto quando si confronta con i dati ineludibili della natura e della morale.

Nel caso specifico, la Corte ha stabilito che una coppia di donne, una delle quali madre biologica del bambino concepito con gameti maschili anonimi, può essere legalmente riconosciuta come “doppia genitrice” del minore. Questo tipo di pronunciamento va nella direzione di un progressivo consolidamento del principio dell’omogenitorialità, già accolto in alcune corti italiane e molto più esteso in ambito europeo.

Ma a quale prezzo?

In nome del desiderio di adulti — desiderio legittimo, comprensibile e spesso segnato da una profonda sofferenza — si mette da parte la domanda fondamentale: chi è il bambino? Quali sono i suoi diritti? Quali figure antropologiche e relazionali lo aiutano a crescere nella sua piena identità? La legge, così orientata, sembra voler plasmare la realtà biologica su un modello giuridico costruito ad hoc, invertendo l’ordine naturale delle cose. È la volontà che crea il vincolo, non più la relazione naturale, e questo rischia di generare una pericolosa deriva: i bambini non sono più soggetti di diritto, ma oggetti di un progetto.

L’identità di un bambino si costruisce sin dai primi anni sulla presenza, la differenza e la complementarità di un padre e di una madre. Quando questa possibilità viene meno per circostanze dolorose — morte, abbandono, malattia — la società cerca di supplire nel miglior modo possibile, offrendo contesti familiari che riproducano quel modello originario. Ma ciò è molto diverso dalla progettazione intenzionale di un figlio orfano di padre fin dal concepimento. L’assenza di un padre non è solo una casella anagrafica, ma una ferita simbolica e reale, che interroga profondamente la coscienza collettiva.

La sentenza, inoltre, non tiene conto del rischio che questo tipo di approccio giuridico apra la strada a un uso sempre più disinvolto della procreazione artificiale, riducendo la vita umana a un “diritto al figlio”, a un prodotto dell’ingegneria riproduttiva. E se un figlio diventa un diritto, allora si apre la porta al mercato dei gameti, alla maternità surrogata, alla disgregazione del senso originario della generazione.

Infine, non si può tacere il dato spirituale: ogni bambino è un dono, non un capriccio da rivendicare, ma una vita da accogliere. Il suo volto è affidato a una madre e a un padre come primi educatori, specchi d’amore che aiutano il figlio a riconoscersi come parte di una storia. La società ha il dovere di custodire questo mistero, non di manipolarlo.

Il desiderio di possedere un bambino ( come fosse un oggetto) , da solo, non basta a fondare ogni tipo di genitorialità, se non si radica in un ordine oggettivo del bene. Le leggi dovrebbero proteggere i più piccoli nella loro vulnerabilità, non adattarsi ai desideri degli adulti più forti.

In un tempo in cui tutto sembra essere ridefinito, urge ricordare che la giustizia non è fare ciò che piace, ma rendere a ciascuno ciò che gli è dovuto. E ai bambini è dovuta una madre e un padre, per quanto possibile. Non per ideologia, ma per verità.

Un forte richiamo alla verità sull’uomo e sulla generazione della vita lo si trova nell’enciclica Evangelium Vitae di san Giovanni Paolo II, dove si afferma che “la vita umana è sacra perché fin dal suo inizio comporta ‘l’azione creatrice di Dio'” (EV, 53). Ogni manipolazione artificiale della genitorialità, come avviene nel caso dell’omogenitorialità, non solo sovverte l’ordine naturale iscritto nella differenza sessuale, ma contraddice la dignità della procreazione, trasformando il figlio da dono ricevuto a oggetto voluto. L’enciclica ammonisce chiaramente sul rischio di una cultura che, in nome della libertà individuale, finisce per cancellare la verità ontologica del corpo e della sessualità, riducendo la procreazione a un fatto tecnico e giuridico.

L’omogenitorialità, infatti, si basa su un atto deliberato di escludere uno dei due genitori biologici — generalmente il padre — negando così al bambino quella complementarità di figure che costituisce la trama antropologica ed educativa della crescita. In tal modo, si ferisce l’essenza stessa della famiglia come santuario della vita, e si mette in discussione il diritto inalienabile del bambino a nascere e crescere nel grembo di una relazione d’amore tra uomo e donna, fatti a immagine e somiglianza di Dio nella loro complementarietà.